9\11\95
I Seminario 1995-1996
Paolo Ferrari: Diamo inizio al nuovo biennio dei Seminari di studio dell'Assenza.
Dovremmo riprendere in mano tutte, o in gran parte, le valenze concettuali
che in questi anni abbiamo conosciuto, interpretato, reinterpetrato, lasciato
andare, ripreso. Questo è il secondo biennio di studio; in mezzo ci sono stati
altri due anni in cui si è passati dalle cosiddette Lezioni
dei primi due anni ai Seminari-laboratorio
con anni distinti, il terzo e il quarto. Questo è un altro agglomerato formato
da un biennio, in cui è mia intenzione prendere in mano la rivoluzione concettuale
che questo nuovo livello denominato Assenza porta entro la struttura
intellettuale, affettiva, linguistica, persino antropologica, persino alle radici
di specie, dato il nuovo luogo chiamato Assenza che, come ho scritto e come già
ho incominciato ad accennare, ogni volta riprenderemo, ridiscuteremo; e io vorrei
a mano a mano poter incominciare una discussione con chi interviene per poter
dare i limiti, le definizioni a questo luogo ancora una volta assente.
L'Assenza
di cui parlo non è un luogo metafisico, non è un luogo dell'intelletto, non è
neppure un luogo dell'emozione o dell'affetto di per sé; in quanto luogo assente
non è, eppure io lo nomino, con esso ho continuamente un discorso aperto, di esso
e con esso parlo e interpreto, conosco, da esso e con esso ho distacco, da esso
e con esso studio, lavoro in esso per portare sì che questo luogo assente si faccia
almeno in qualche modo meno assente della sua assenza e perché questo possa in
qualche modo entrare in una relazione più possibile con quella che è stata la
storia della specie Homo sapiens.
Abbiamo chiamato questo biennio 'Sui
margini dell'Assenza'; infatti mi sono posto sui margini di questo rettangolo
rappresentato dal tappeto. Come già ho incominciato ad accennare da capo, questo
luogo è vuoto; è difficile nella cultura occidentale parlare di 'vuoto', parlare
di 'assenza', parlare di 'nulla', perché di questi elementi ben poco c'è nell'esperienza
strutturale del pensiero, quasi della struttura di base del cervello dell'uomo
occidentale. Allora, il problema che ho avuto in questi anni e che ho tuttora,
anche se in misura minore, è come poter chiamare questo luogo, come poter chiamare
un alcunché che nel momento stesso in cui si mostra recede, si sottrae. Ma questo
alcunché non è un alcunché di misterioso oppure di puramente intellettuale, non
è l'assenza del pensiero intellettuale che si oppone alla presenza, è diciamo
più vicino a un concetto sufficientemente concreto qual è quello dell'assenza
che il bambino prova nel momento stesso in cui la madre se ne va. Questa è una
delle basi del pensiero freudiano analitico: questo luogo in cui il bambino deve
strutturare qualche cosa perché l'oggetto d'amore è diventato assente, si è assentato,
non c'è più, e deve strutturare qualche cosa non di alterato, non di perduto,
non di soltanto angosciante, altrimenti, se non struttura questo alcunché che
comunque è nell'ambito di un assente, di un'assenza, se questo non si struttura
nel suo modo giusto - e questo modo giusto non sappiamo bene che cosa sia, possiamo
dire che è la mente, la mente affettiva - il bambino non avrà mai la libertà,
non avrà mai il potere di se stesso in mano, non avrà mai formato un luogo che
è la sua mente, capace a sua volta di elaborare in un modo autonomo, distaccato
da quello che è l'oggetto mondo, distaccato nel modo giusto e perciò distaccato
non nel modo alterato di quando il bambino spaventato fugge, scappa, recede, recede
da sé, entra in sé, non nasce neppure perché ha paura della perdita dell'oggetto.
Questo 'recedere' di cui parlo, questa Assenza di cui parlo è un luogo che
rimane vuoto, ma ricchissimo di questo vuoto, non c'è nessun depauperamento, non
c'è una morte cattiva, non c'è una morte destrutturante, non c'è una morte entropica
- entropica vuol dire una morte che porti disordine, quella morte che in generale
si vive, anzi si muore, per cui è detto che la materia tende al disordine. Se
il bambino si stacca in maniera giusta dalla madre, in un certo senso possiamo
dire che acquisisce la capacità di una morte assente, di poter vivere un'assenza,
cioè poter vivere il fatto che la madre se ne è andata: in un certo senso per
lui è morta, ma è morta in un modo giusto, è morta assente, è morta e ha dato
luogo a questo ponte, a questo ponte del non essere che sarà poi la sua possibilità
mentale, linguistica, simbolica e io dico, su un altro livello ancora più complesso
che a mano a mano discuteremo, 'ultrasimbolica', capace di andare anche oltre
all'obbligo della rappresentazione dell'oggetto e quindi di una comunicazione
capace della sua assenza.
Io mi trovo, di fronte a questo tema, abbastanza
in una situazione paradossale nel parlare di questo luogo assente: ognuno di voi
l'ha vissuto perché ognuno di voi è venuto al mondo, è nato, il cordone ombelicale
è stato tagliato, dalla madre in qualche modo si è dovuto separare, la situazione
edipica in qualche modo l'avrà superata, oppure sarà rimasto impigliato, non ci
sarà stato un sufficiente distacco, ma in qualche modo un parziale distacco ci
sarà stato se no l'individuo è schizofrenico o è malato di una grossa psicosi,
non è capace di organizzare il mondo, non è capace di progettare, non è capace
di entrare nel tempo, non è capace di entrare nello spazio, è molto vicino a quello
che è la natura della specie animale che l'ha preceduta, non si è staccato, non
è diventato Homo sapiens, non è diventato uomo storico, non ha in
sé il potere del proprio pensiero, della propria mente, del proprio linguaggio,
dipende.
Mi trovo, come dicevo prima, in una sorta di imbarazzo a dover parlare
di questa cosa di cui nessuno a una certa età, ma anche nel momento stesso in
cui questo viene acquisito, ha l'esperienza diretta; nessuno ha l'esperienza del
fatto del distacco. Nessuno o pochi: non so ancora di certo quale tipo di esperienza
hanno relativamente al fatto di poter pensare, di poter essere in quanto distaccati,
in quanto non essenti. Io dico che il pensiero, l'attività mentale è un non-essente;
se è valido quello che ho detto precedentemente, avviene nell'ambito di un distacco.
Se c'è un distacco e quindi c'è una separazione e quindi c'è un nulla, in questo
nulla si fonda un qualche cosa: noi diciamo che è un qualche cosa, io dico su
un livello un po' più complesso che lì c'è proprio nulla, non c'è niente, dico
che la mente non è niente, il pensiero non è niente, ha questa proprietà dell'essere
niente, di aver la possibilità di poter essere radicalmente distaccata.
Dicevo
che di fronte a questi temi è difficile poter convogliare il pensiero, perché
i soggetti umani non hanno l'esperienza di questo distacco, hanno l'esperienza
indiretta: hanno il fatto che sono capaci di leggere, che hanno imparato a camminare,
che son capaci in qualche modo di parlare, che comunicano, che hanno dei frammenti
di affettività o hanno anche un'affettività più aperta, hanno la possibilità di
astrarre, hanno la possibilità di rappresentarsi gli oggetti del mondo attraverso
dei simboli; ma più di questo non sanno, non hanno l'esperienza del nulla, del
vuoto. La filosofia parla del nulla in qualche modo, però Parmenide dice che del
nulla non si può parlare perché è una contraddizione in termini, in quanto se
c'è l'essere non si può parlare del non essere, in quanto è essente.
Allora
ci troviamo in un bel paradosso dal punto di vista concettuale; intorno a questo
paradosso io sto lavorando da moltissimi anni per poter produrre, per poter dare
dei limiti concettuali a questo grossissimo paradosso. In un certo senso so che
dal punto di vista linguistico-mentale, attraverso questo fatto dell'assenza che
io conosco, di cui ho esperienza, di cui ho esperienza in qualche modo diretta
per una serie di condizioni, di analisi del profondo, di analisi linguistica,
di analisi ultrasimbolica, di auto analisi, di passaggi successivi nei rapporti
tra me e l'altro, incomincio a parlare di questo elemento che si può chiamare
'il distacco'.
Ma questo non è soltanto un fatto soggettivo, questo deriva da uno studio lunghissimo
che nasce da lavori sperimentali nel campo della memoria, nel campo dell'apprendimento,
in laboratorio, e poi dal quotidiano vivere nel rapporto con la malattia, con
la patologia mentale, con il continuo raffrontarsi, discutersi, nascere, morire,
nella relazione con colui che è ammalato proprio della mancanza del distacco,
proprio della mancanza dell'assenza, proprio del fatto che tra sé e il mondo non
c'è quella distanza, quel vuoto, quel nulla attivo per cui egli potrebbe pensare
in maniera più consapevole, in maniera più affettiva, condividere, coinvolgersi
nelle relazioni con un accoppiamento di realtà che sia sufficientemente valido,
strutturato, progettuale e conoscitivo.
Allora, quello di cui io parlo è proprio
un varco, è un anfratto, è un pezzo in mezzo, è questo pezzo*:
questo è il nulla, ma non è il nulla a cui noi siamo abituati a rispondere. Noi
di solito siamo abituati a rispondere a un nulla che - io dico, scrivo - è una
pura immaginazione, è un'invenzione del pensiero. Nessuno al mondo ha esperienza
del nulla, però sul nulla, sul niente, sul vuoto, su questa categoria - il nulla
che è anche ignoto - sono state costruite teorie, paure, angosce; si è detto che
la morte è nulla, si è detto che l'assentarsi dell'attività pensante è nulla,
si ritiene ovvio il fatto che nel momento stesso in cui il cervello tace tutto
scompare, tutto è assente. Io non contesto questo elemento, non lo contesto dal
punto di vista scientifico, ma dico comunque che questi sono dei meccanismi della
mente umana che è grossolana: noi non sappiamo assolutamente nulla del fatto di
quando un'attività mentale pensante, conoscitiva, simbolica, astratta tace. Cioè
di questo pezzo in mezzo che poi dà la possibilità del formarsi della mente, di
questo pezzo distaccato noi, non avendo un'esperienza diretta, non sappiamo nulla;
noi vediamo l'indiretto, vediamo il fatto che sappiamo parlare, che la specie
umana è capace di un linguaggio astratto, simbolico, di forte impatto, di grande
livello, che è capace di strutturare dei grandi progetti che secondo me ancora
si portano dietro i grossi limiti del fatto che la specie umana non è capace di
conoscere l'interno di questo luogo*,
lo conosce indirettamente. Cioè in un certo senso non conosce la propria morte,
il proprio venir meno, il proprio assentarsi, lo conosce indirettamente, ma non
sa che cosa qui in mezzo*
ci sia e 'non sa' vuol dire che non ha coscienza, che non ha prodotto un certo
tipo di accoppiamento tra sé, tra il soggetto e questo altro elemento, il quale
elemento non è detto che sia soltanto all'interno del soggetto pensante, ma questo
elemento nel momento stesso che potesse essere conosciuto, riportato, fatto diventare
ente fenomenico, questo potrebbe far parte di una realtà molto più complessa di
quella che noi siamo soliti osservare. Cioè questo luogo è chiuso in questo interno
che potrebbe essere la mente ed è per quello che io dico e scrivo in generale
che la mente umana è ancora autistica, chiusa su sé stessa; questa mente, questa
capacità intellettuale logica, affettiva, razionale non è uscita dai suoi contorni
ancora molto incerti, non si è definita, non è passata nell'ambito di una realtà
più vasta, non ha avuto la capacità di accoppiarsi e di dare luogo ad una realtà
molto più ampia che tenesse conto di questo luogo che si è fatto assente.
In altro modo quello che io dico in generale è che il nulla, quello che viene
chiamato il nulla in campo filosofico, in campo fisico, della fisica, nel campo
biologico, non vale un granché, cioè questo nulla di cui si parla, di cui si teme,
di cui non si conosce, è un concetto immaginario, è una fantasia umana, cioè la
mente che non è capace di conoscere se stessa, il cervello che non è capace di
conoscere la propria rappresentazione fattasi assente, e cioè il venir meno della
rappresentazione, non potendo fare questo non può dire nulla di questo nulla,
non sa niente di questo nulla. Perciò un mondo è stato creato sul fatto che il
mondo è fatto sulla cosa, ognuno di noi pensa la cosa, pensa soltanto cose, mette
vicino una cosa dietro l'altra, una cosa vicino all'altra, lo spazio è fatto di
una cosa vicino a un'altra; lo spazio veramente assente, lo spazio vuoto, lo spazio
libero non è conosciuto. Noi pensiamo in continuazione per oggetti, per oggetti
che - io dico - sono una cosa concreta, noi non sappiamo veramente nulla del nulla
dal quale la mente umana, il pensiero pensante, il linguaggio astratto è nato,
non ne abbiamo l'esperienza. Non solo non ne abbiamo l'esperienza, ma lo spazio
che si è formato tra il bimbo e la madre alla nascita con il taglio del cordone
ombelicale, con i vari processi che vengono studiati nel campo analitico, con
la castrazione simbolica, con altri processi complessi, questi non danno adito
alla possibilità di un altro ente reale più complesso che non questa dicotomia
tra la cosa e un nulla che non si vede, che non c'è, di cui non si può dire niente:
questo nulla di cui noi c'immaginiamo, sul quale sono state costruite anche ideologie,
sono state costruite religioni, è stata costruita l'idea dell'annientamento, questo
nulla che porta con sé il concetto di distruzione. Di questo nulla e cioé di un
nulla più vasto, di un nulla più complesso, di un nulla che io chiamo 'attivo',*
che è questo luogo, che è questo varco, che è questo divaricamento e nel quale
il cervello umano è stato capace di produrre una mente, un luogo affettivo, un
luogo relazionale, di questo nulla non sappiamo assolutamente niente.
Questo
nulla lo sto indagando da venticinque anni, se non di più, lo sto indagando in
campo sperimentale, lo indago in campo clinico, mi occupo della cura delle persone,
delle persone malate, ma anche delle persone sane; vado ad indagare questo nulla,
ne vado ad avere una possibile, dico, relazione, mi sono abituato attraverso dei
processi complessi ad avere relazione con questo nulla, cioè con questo campo,
con questo accoppiamento* di realtà molto più vasto, cioè ad abitare in questo
luogo che non è nient'altro che l'esplicazione, l'estrinsecazione di questo vuoto
interno che è piccolo, che è chiuso, che è appena appena misurato per poter far
sì che Homo sapiens possa essere minimante sapiente, possa strutturare
la sua storia. A poco a poco ho avuto coscienza e ho preso coscienza del fatto
che questo può uscire dal suo luogo e diventare questo nulla molto più ampio in
cui poter abitare, cioè poter abitare senza il bisogno continuo, costante di rappresentare
le cose, ma questo nulla non è un nulla negativo, non è un nulla in cui gli oggetti
muoiono, in cui i simboli muoiono, in cui le parole muoiono. Questo Centro può
esserne anche espressione, si può vedere attraverso tutte le opere che nascono,
attraverso la musica di cui dopo mi occuperò: questo nulla continua a produrre
un qualche cosa che in un certo senso è in contraddizione, potrebbe essere in
contraddizione con il suo stesso esistere, con questo grado zero, ma questo non
è in contraddizione in quanto nel momento stesso in cui produce un alcunché è
capace di farsi assente, di entrare e di produrre a sua volta ancora un margine,
un margine di nulla*
.
Il mio desiderio è quello a poco a poco di poter definire sempre meglio
questi grossi problemi, questi paradossi, dare linguaggio, dare linguaggio in
modo che questo sia trasmissibile, che non sia trasmissibile soltanto attraverso
una comunicazione diretta, ma anche attraverso una serie di comunicazioni indirette
che sono quelle che gli uomini hanno inventato attraverso la scrittura, attraverso
le immagini, attraverso la fotografia, attraverso i quadri, attraverso la musica,
attraverso il discorso razionale, attraverso un'idea nuova dell'uomo politico,
del concetto di relazione tra gli uomini, quindi di un concetto diverso di Stato,
di un concetto diverso di società - di Stato no, non so ancora, ma di società
sì -, comunque di relazione, in cui la relazione sia più ampia, cioè prenda parte
di questo luogo molto più aperto in cui già io ritengo che gli uomini, Homo
sapiens in un certo senso abbia abitato e abiti anche se in un modo ridotto
per le cose, per i limiti di cui ho parlato precedentemente. Ma ripeto, se ognuno
di voi ci pensa, vede che l'attività pensante non è niente rispetto a un oggetto,
a una cosa, a un microfono, a un tamburo, a un pavimento, a un piede, a un naso,
al cervello stesso; la mente o l'attività pensante - usiamo i termini più vasti,
più ampi -, l'attività pensante non è niente, è un alcunché che non è niente.
Nell'evoluzione della specie è avvenuto che questo niente, che questo essere
niente in un certo senso si è sviluppato: l'animale aveva un niente minore, l'animale
ha una certa attività del suo sistema nervoso e questa attività del suo sistema
nervoso gli rende possibile fare una certa serie di azioni che però sono ripetitive,
sono coattive, sono di un vecchio sistema naturale il quale tiene conto soltanto
di cicli di vita e di morte, di equilibri fissi, e questo è un livello del sistema
naturale che si è fatto un pochettino più vuoto, nel senso che ha potuto pensare,
cioè si è scavato, si è scavato un pezzetto. Nell'uomo è avvenuto qualcosa di
più, si è scavato un pezzo ulteriore, il suo essere è diventato un po' più vuoto
e in questo vuoto è nato quello che noi chiamiamo pensiero, il quale non ha una
materia, oppure se anche l'avesse, è una materia che non è fatta della materia
che noi conosciamo; il pensare è qualche cosa di vuoto, è qualche cosa che si
avvicina molto allo stadio di nulla.
Io ritengo che ci sia una possibilità
di evoluzione da questo punto di vista, che questa possibilità di 'nulla' possa
avvenire in maniera più complessa, più completa, linguisticamente più appropriata,
culturalmente su un ulteriore livello; che la coscienza possa essere sviluppata,
che l'animalità dell'uomo, cioè l'istintualità, la pulsionalità possa recedere
in funzione di questo altro linguaggio più complesso, più astratto perché esiste
un luogo diverso chiamato 'Assenza'. Con la scoperta di questo luogo diverso chiamato
'Assenza' di cui sto parlando, radicalmente muta lo stato della specie umana.
Questo è un minimo di introduzione.
Vorrei che Susanna Verri entrasse
in questo sistema e mi ponesse qualche domanda, perché io voglio costruire insieme
con gli altri, voglio costruire qualche cosa attraverso un dialogo, attraverso
un rapporto, attraverso anche un'opposizione, una coercizione, una qualsiasi cosa
che possa dare dei limiti, dei confini, delle cognizioni a questo linguaggio che
è di per se stesso così ampio, così assente, così vuoto. Essendo così vuoto ha
dentro di sé il massimo livello di libertà, ha anche il massimo livello di costrizione,
ma deve a poco a poco farsi fenomeno.
Aspetta che vado a staccare un attimo
perché c'è quel rumore fuori... C'era quella fontanella nel cavedio che continuava
a fare un rumore di fondo e, poiché sono molto sensibile ad ascoltare i suoni,
tendeva a riempire.
Susanna Verri: Ho seguito con molto interesse tutto
l'excursus di questa prima parte del Seminario, in cui mi sembra che tu abbia
toccato certamente alcuni punti salienti dei temi fondamentali, riproponendoli
come sempre, riattivandoli in un certo senso, riaprendo questo campo dell'Assenza,
riaprendo questo livello di comunicazione tra quello che è il piano consueto a
noi tutti noto della realtà e quello che è il campo del nuovo dominio di cui ci
occupiamo con questi Seminari. Tanti punti mi sono sembrati significativi e li
riprenderei molto volentieri, cerco però di tenere un aspetto più generale nel
mio intervento.
Allora, mi chiedevo come tu consideri tutto l'iter dei Seminari
che abbiamo fatto. Cioè in relazione a questo disegno che hai fatto alla lavagna,
del nulla, della mente con il suo nulla all'interno e della realtà circostante
in cui pure è possibile che si formi questo campo di nulla attivo, data un'opportuna
mediazione, data un'opportuna interazione tra il campo dell'assenza e il campo
della realtà nota, a me sembra che tutto l'iter dei Seminari, i Seminari stessi
nel loro insieme, anche quello di stasera, ma tutti quelli precedenti in unmodo
poi che cercherò di sintetizzare, abbiano costituito una grande operazione di
questo ponte, di questo ponte di cui parlavi anche tu prima, dell'assentarsi,
del ponte del non essere: tu parlavi prima del ponte del non essere nell'individuo
che permetteva poi la possibilità linguistica e simbolica, ultrasimbolica. I Seminari
nel loro insieme mi sembra che costituiscano a vari livelli, ogni anno con una
sfumatura diversa, un tratto di questo ponte, cioè un tratto della formazione
all'interno della realtà esistente di un tratto di quel nulla attivo di nuovo
tipo che disegnavi sulla lavagna.
Pensando al Seminario di questa sera io
ho rivisto i vari annunci che sono
stati fatti a partire dall'anno '91 e ho visto un excursus di grande interesse,
perché appunto vi si nota in modo progressivo la formazione di un linguaggio che
si specifica, si specifica nel senso che acquisisce a mano a mano la capacità
di contenere, all'interno dei termini della cultura già nota, già esistente che
ci appartiene, il campo nuovo. Quindi questo linguaggio acquisisce nel corso degli
anni, nel corso dei Seminari, e anche negli scritti che progressivamente annunciavano
i Seminari, la possibilità di descrivere il campo nuovo di cui ci stiamo occupando,
partendo dai primi tentativi del primo anno di Lezioni, in cui si parlava del
Teorema dell'Assenza. Fondamenti teorici e pratica del pensar nuovo, in
cui l'impostazione era quella a partire da un approccio teorico all'assenza, teorico
che poi si voleva atto a produrre nuovi comportamenti nella struttura del cosiddetto
reale, si diceva, ma c'era questo termine il "Teorema dell'Assenza"
e c'erano i fondamenti teorici e la pratica del pensar nuovo. Nei primi due anni
quindi l'impostazione era quella di descrivere il nuovo metodo di osservazione
e sperimentazione della realtà: si trattava di iniziare a parlare del livello
zero della realtà, di proporre una realtà mostrata come duale, duale perché nel
medesimo luogo aveva in sé il piano consueto e le prime forme del nulla, potrei
dire, utilizzando un termine di cui si parlava allora. Questo il taglio dei primi
anni, mentre poi nel corso dei successi due coi Seminari-laboratori c'è stato
l'ingresso di tutti i linguaggi differenti che nascevano dalla formulazione del
campo nuovo e che si facevano atti, idonei alla transizione, cioè a produrre questo
ponte del non essere che dicevo prima. E compariva quindi in questi Seminari tutta
la parte della musica, tutta la parte del canto anche l'anno scorso, la voce umana
quindi, iniziava a essere posta l'assenza come contenitore, cioè la facoltà dell'assenza,
la condizione dell'assenza era proposta, era presentata, era resa pensabile come
un grande contenitore dato il quale la realtà potesse avviarsi alla trasformazione
profonda e radicale, indotta dal nuovo campo di cui si stava parlando, cioè il
campo dell'assenza aveva questa funzione di contenitore.
Con riferimento ai
Seminari di quest'anno - questa è la mia domanda - tutto questo iter vorrebbe
poi chiederti di specificare o di indicare ancora meglio l'orientamento di questi
nuovi Seminari in cui si nota, già a partire dagli avvisi introduttivi, un salto
qualitativo; non so se si possa dire qualitativo a dire il vero, perché non è
di qualità che si può parlare, però un salto c'è sicuramente.
Paolo Ferrari:
... di genere, quasi un salto di genere, di generazione. Appunto quello che dicevo
è che, dato questo campo d'indagine, è venuta alla luce questa alterità, questo
altro, questo altro realmente altro - non l'altro fino adesso di Homo sapiens,
di cui ha l'ossessione Homo sapiens e di cui parleremo -, e questa alterità,
questo luogo vuoto, questo rettangolo vuoto il problema che esso ha, che io ho
relativamente ad esso è il fatto di questi salti generazionali, quasi come fosse
una piramide e dal punto più alto, che è il punto zero, avere 01, 02, 03, 04 e
arrivare con la base della piramide sufficientemente ampia perché il linguaggio
umano, quello scoperto fino adesso dagli uomini, possa parlare di questo luogo
il quale luogo è il distacco, il quale è il nulla, il quale è fondamentalmente
una morte assente, è una morte di altro tipo, è il fatto che il cervello umano
- quello che io dico - ha imparato, ha scoperto, ha fatto la grande scoperta del
fatto che può tacere, può stare zitto, cioè che tutta la rappresentazione, che
tutta la memoria, che tutti i linguaggi possono essere ricondotti o fatti esistere
in un nulla e basta. Perciò se il punto più alto è questo nulla, questo nulla
non parla, non dice niente, parla soltanto il suo linguaggio in un certo senso.
Quello che io sto tentando di fare è che questo linguaggio di cui questo [punto
più alto] è nulla parli a mano a mano un linguaggio che possa accoppiarsi a sufficienza
con il linguaggio inventato fino adesso dalle scienze sociali, dalle scienze filosofiche,
dalle scienze cosiddette dure, dalla fisica, dalla matematica, da quella che è
la cultura di Homo sapiens.
Allora, il lavoro di quest'anno è questo
e per questo chiamo questi incontri 'Seminari', perché vorrei che fossero un lavoro
sempre più collettivo, possibilmente collettivo; cioè ho scoperto a poco a poco
che questo pensiero che era così individuale, così assoluto nel suo individuale
è un pensiero collettivo, sto scoprendo che è un pensiero collettivo, anche se
non ne ho ancora i documenti, non ho gli aspetti concreti a sufficienza. Incomincio
a vedere che è un linguaggio collettivo, incomincio a vedere che le scienze ne
parlano da un certo punto di vista, che le cellule per moltiplicarsi hanno bisogno
di imparare a morire in un certo modo, che il linguaggio della medicina deve trasformarsi
in un certo modo per capire certi tipi di patologia e così via. Io a poco a poco
mi avvicino sempre di più a questi linguaggi, ma forzo questi linguaggi, per forza:
quando parlo della morte certamente non parlo della morte come tutti ne parlano
perché io conosco la morte assente, la morte concreta, la morte entropica, la
morte altra; oppure se parlo della musica, io conosco la musica che è assente,
che è silenziosa, conosco i suoni che sono muti, mentre la musica normale conosce
soltanto i suoni che fanno rumore, io invece conosco i suoni che stanno zitti.
C'è quest'altro versante che io conosco, che verifico giorno per giorno, che ho
verificato in più di sessanta terapie o lavori di rapporto giornaliero con pazienti,
con la psicosi, con la schizofrenia, con la nevrosi, con la fobia, con la specie
che è ammalata insomma. Allora sto cercando questo connubio che ho chiamato 'accoppiamento',
ho chiamato 'raddoppio
per accoppiamento', e sono tutte formulazioni concettuali che mi devo inventare,
in qualche modo devo inventarmi un vocabolario.
Quello che sono solito dire,
quello che volevo dire anche all'inizio era che comunque questo pensiero è un
pensiero in atto, cioè io stasera ho parlato di questo luogo, ho disegnato questo
luogo verde e bianco, ma un momento prima non sapevo che l'avrei disegnato in
questo modo, non sapevo assolutamente che sarei partito dal distacco, dal vuoto
del distacco del bambino che si distacca dalla madre; questo lo sapevo, l'ho scritto
nel II Saggio
dell'Assenza,*
ma mai da questo punto di vista, non ho mai pensato a un accoppiamento che parta
da qua e che formi questo; questo qui**
si è formato questa sera nella relazione con voi, quindi in un pensiero collettivo
e allora un pensiero collettivo è un pensiero sociale e quindi è un pensiero politico.
Allora in un certo senso questo pensiero è anche un pensiero che non ha potere,
che non ha potere perché si deve formare insieme nella relazione, e quindi entrando
nella relazione ha potere soltanto nella relazione, quindi riconoscendo l'altro;
se non riconosce l'altro questo non esiste più, non esiste più niente.
Allora
la difficoltà è il fatto di dovere incominciare, è un rischio quasi biologico
in un certo senso quello che si corre pensando in questo modo, cioè costruendo
questi altri linguaggi sui margini, sui margini dell'Assenza, sui margini del
nulla; è un rischio vero, è un rischio di cui parlava anche nei suoi vari scritti
Deleuze, quel filosofo che recentemente è morto, il quale diceva che un vero pensiero
è quello del pensiero per differenza, del pensiero sui margini. Però è un pensiero
rischioso, è un pensiero che può morire, può dare morte, può dare il nulla e questo
nulla se non è preso dal giusto verso può dare il nulla entropico, il nulla del
disordine; se è preso dal punto giusto questo dà immediatamente il fatto che questo
luogo che fino adesso è occupato - la vostra testa, questo luogo è continuamente
occupato, il corpo è continuamente occupato da se stesso -, se questo luogo si
apre, se questo luogo si svuota, diventa vuoto, diventa nulla, diventa assente,
allora nascono i linguaggi, i possibili linguaggi altri ed è possibile riconoscere
l'altro come veramente altro, come altro da sé senza doversi occupare di chi sia
l'altro; non c'è più il problema nè di razza, nè di altro tipo, cioè il prossimo
tuo è veramente il prossimo tuo, cioè è un altro, un altro in cui tu preesisti
in quanto esistente, in quanto assente, e tu esisti soltanto in quanto riesci
a pensare l'altro; se non riesci a pensare l'altro non esisti più, perché se no
questo [spazio] si occupa tutto e allora muori, ritorna ad essere una morte entropica
invece di essere una morte libera, una morte aperta, un pensiero che è capace
di pensare, di autopensarsi assente e in una condizione molto più complessa di
quello che è stato fino adesso pensato e cioè raddoppia se stesso.
Parlavo
del raddoppio perchè adesso farò della musica, Musica dell'Assenza; faccio della
musica che chiamo 'raddoppio'
perchè è una musica che raddoppia cioè riconosce l'altro e farò degli accoppiamenti,
cioè metterò su della musica giapponese antica che adesso vi illustrerà un momento
Patrizia. Volevo parlare un attimo del concetto di 'raddoppio' molto semplicemente,
poi lo riprenderemo: c'è della musica giapponese, con questa mi metto a suonare
con uno strumento che è totalmente occidentale come lo Stainway, il pianoforte
Stainway: tenterò di farvi entrare dentro le fibre di questa musica antica e di
avere un'interrelazione e cioè nel riconoscerla in quanto altra di poter entrare
in una relazione complessa che non è una relazione diretta immediata, voi non
sentirete una relazione immediata, ma una relazione molto più complessa in cui
in mezzo c'è un vuoto, c'è un nulla, ma c'è questa relazione per assenza.
Dopo questo, farò invece un pezzo molto occidentale, un pezzo di Debussy. Ho scelto
un pezzo di Debussy suonato da Benedetti Michelangeli, che più occidentale di
Benedetti Michelangeli è ben difficile che ci sia qualcuno, ed è un pezzo dei
Preludi, che sono pezzi di grande pianismo, di grande anche intelligenza;
è il quinto preludio chiamato Le colline di Anacapri e poi semmai lo illustriamo
un attimo, dopo.
Patrizia a te la parola.
Patrizia Brighi: Questo
brano di musica giapponese che Paolo Ferrari raddoppierà è un brano di musica
gagaku. Gagaku è oggi la musica tradizionale giapponese che viene
suonata nel palazzo imperiale di Tokyo, però il termine gagaku risale alla
antica musica confuciana e gagaku è stata anche la musica introdotta dai
giapponesi nel VII° secolo dalla Cina ed era la musica cinese che la Cina a sua
volta aveva anche importato da tutto il continente asiatico, persino dall'India
e dall'Iran, cioè lungo la Via della seta. Questo brano Kishunraku no ha
è un brano bugaku, cioè di musica togaku che viene usato per la
danza, cioè una musica strumentale che viene usata per la danza della sinistra,
contrapposta alla musica komagaku che arriva invece dalla Corea, importata
anch'essa contemporaneamente o poco prima del VII secolo, e che invece viene usata
per la danza della destra. Invece questa sera c'è questo brano Kishunraku no
ha per la danza della sinistra samaei.
Paolo Ferrari: Questo
è un pezzo molto sostenuto, molto tosto, è una musica molto forte dentro, è una
musica, come diceva appunto Patrizia, imperiale per far risaltare questa figura
dell'imperatore, per dare questo senso della forza dell'animo giapponese, ma anche
con la gentilezza antica di questo animo. E io cercherò di essere all'altezza,
di poterla contenere, di potere suonare insieme, perchè di solito una musica del
genere non accetterebbe nessun tipo d'incontro e invece quello che io tento di
fare è questo tipo accoppiamento vuoto al centro in cui si possa porre la relazione
e quindi una relazione tra un vuoto orientale e un vuoto occidentale.
Occorre
della concentrazione...
[Paolo Ferrari esegue al pianoforte Stainway il Raddoppio di un brano
di musica giapponese - durata 6' circa]*
Paolo
Ferrari: E' una musica forte. Anche questo tipo di musica, questo tipo di
raddoppio fa parte di un linguaggio il quale si compone di volta in volta e quindi
non ha la possibilità di avere una rete di protezione: si espone, entra nella
relazione, si espone e tace, si espone e tace ; quindi non ha possibilità di difese,
mentre di solito qualsiasi tipo linguaggio umano ha continuamente questi recinti.
Adesso faremo il raddoppio di un preludio di Debussy che è tutt'altra cosa,
che è questo mondo così delicato, da una parte astratto e nello stesso tempo concreto
come il pensiero di Debussy, come sono i suoi suoni che subito svaniscono, che
non sono nulla, che appaiono e in questo apparire io cercherò di fare Musica dell'Assenza
che questo apparire lo colga e nello stesso tempo esaurisca questo apparire in
eccesso che talvolta c'è nel linguaggio di Debussy.
[Paolo Ferrari esegue al pianoforte Staniway il Raddoppio del preludio
di Debussy Le colline di Anacapri - durata 3' e 30 '' circa]
Paolo Ferrari: Quello che è interessante è poi sentire l'accoppiamento
che si forma all'interno della registrazione, cioè l'accoppiamento dove i linguaggi
si devono comporre, perchè è così difficile credo sentire la differenza tra un
linguaggio che nasce da uno strumento meccanico qual è quello di un disco, di
un compact, e quello di un pianoforte invece dal vivo. Adesso invece a me interessa
sentire come si è formato all'interno del DAT, della registrazione, come i due
linguaggi hanno potuto incontrarsi e come hanno potuto esplicarsi, come hanno
potuto venire fuori, come Debussy abbia parlato il suo linguaggio e io abbia parlato
il mio linguaggio, quindi come questi due linguaggi si siano accoppiati in questo
altro livello di cui sto parlando.
[Viene fatta riascoltare la registrazione del Raddoppio per pf. da Debussy
di Paolo Ferrari]
Paolo
Ferrari: Allora se avete delle domande sarò lieto di rispondere.
Dobbiamo
collaborare alla costruzione di questo linguaggio, di questa rivoluzione concettuale
ed esperienziale.
Susanna Verri: Se posso dire una cosa, quello che
è interessante e difficile nel farti una domanda dopo che hai parlato o nel mezzo
di un Seminario, è che non si sa da dove partire. Siccome è avvenuto o sta avvenendo
questo processo di scavo, manca il consueto punto d'appoggio e questo è poi il
senso anche della collaborazione, di starci.
Paolo Ferrari: Manca la
rete d'appoggio, viene tolta la terra sotto i piedi in un certo senso, in senso
buono.
Susanna Verri: Si, perchè non è così vero, è anche un'idea questa,
non è così vero perchè se no non si potrebbe parlare, però la sensazione...
Fabrizio Stangalini: Paolo scusa, per me è stato quasi impossibile vedere
o sentire o percepire col brano di musica imperiale giapponese e la Musica dell'Assenza
un vuoto che non fosse esclusivamente creato dalla tua musica. Cioè che fosse
la tua musica che si portasse verso questa cultura, quella che ha generato la
musica giapponese e quel brano che abbiamo ascoltato poco fa, mentre mi è sembrato
che fra il brano di Debussy e il tuo Raddoppio ci fossero dei notevoli livelli
di similitudine. Temo però di percepirli solamente a livello meccanico, fisico,
della musica. E per questo quindi la mia è un po' una domanda sul perchè questo
brano musicale, se io l'ho capito giusto, è senza o non è molto pieno di assenza,
di distacco, oppure avevo capito sbagliato?
Paolo Ferrari: Non ho capito,
in che senso non ha assenza dal tuo punto di vista?
Fabrizio Stangalini:
Perché io ho sentito una continua dicotomia fra l'espressione che sembrava volesse
dire che era invece molto piena, ma non di silenzi.
Paolo Ferrari:
Ah, in questo senso.
Fabrizio Stangalini: Il vuoto c'era, l'assenza
c'era fra le due musiche, almeno io le ho sentite finire in un contenitore, in
uno spazio, però essenzialmente perchè c'era la Musica dell'Assenza che creava
in continuazione questo spazio. Però se ce l'hai presentata...
Paolo Ferrari:
Questa musica giapponese che io non conoscevo fino a un mese, due mesi fa mi ha
colpito moltissimo per la sua potenza estraniante in un certo senso, per questo
volume, per questi suoni che io ritengo così concreti e nello stesso tempo così
astratti. Cioè la mia intenzione era quella di poter prendere questi suoni così
aspri: come ho detto prima è una musica tosta, così piena, così ricca di armoniche,
di vibrazioni, in un certo senso, come tu dici, anche di occupazione della realtà,
ma è dal punto di vista dei suoni, dell'ascolto occidentale, io credo, che si
osserva e si sente questa sua presenza, questa sua immanenza così drastica. Io
dall'altro punto di vista o da questo punto di vista che ho cercato di esprimere,
colgo in questa musica tradizionale come se io prendessi - e il raddoppio è consistito
in questo - la coda di ogni tipo, di ogni momento espressivo, di ogni passaggio
da uno strumento all'altro oppure da un momento melodico all'altro, se possiamo
chiamarlo melodico, oppure da ogni momento di cambiamento di dinamica, e cogliessi
il punto in cui questa musica tende a occupare: in verità essa ha il fatto che
è capace anche di essere assente, cioè di togliersi.
La cosa difficile credo
per tutti ed è questo il problema che io continuo ad avere nella relazione con
gli altri per far capire questo livello su cui io parlo, è il fatto che comunque,
se qui arriva una escavatrice e incomincia a fare un buco qui dentro, io sento
il vuoto; immediatamente il mio orecchio sente il fatto che sta escavando e riesce
a cogliere il fatto che questa escavazione, che questo vuoto, questo suono concreto,
nel momento stesso in cui entra in relazione con questo sistema che ha questo
tipo di accoppiamento, si fa vuoto. Ora io non so se è perchè lo rendo io vuoto
o lo rende esso vuoto in questa relazione o esso è capace di questo vuoto. Io
dico che i suoni, ma anche le parole umane, hanno alla lora base la capacità,
nel momento stesso in cui si mostrano - il suono di per se stesso, penso -, di
avere alla sua radice questa vibrazione la quale è capace, se colta nel modo giusto,
di virare e diventare un vuoto affettivo.
Io mi sono abituato a suonare con
il Bechstein o piuttosto facendo dei rumori sulla lavagna oppure per terra, sentendo
un martello pneumatico, perchè questo martello pneumatico mi dava fastidio e allora
io suonavo oppure toccavo la lavagna in un certo modo, toccando*
e sentendo io questo vuoto, dove sento questo vuoto, dove sento questo suono che
si fa muto, per rendere muto questo martello pneumatico, per poter andare avanti;
mi è capitato in seduta di avere i martelli pneumatici di sopra e non sapere come
fare e allora dover tochettare la scrivania in un certo modo in modo che questo
attennuasse e bloccasse questo suono dei martelli pneumatici, perchè così come
partiva non era capace di diventare assente. Cioè significa che essendoci questo
tipo di accoppiamento molto più ampio, io vivo continuamente e vivo col mio paziente
continuamente questo accoppiamento molto più ampio; se entrano dei livelli, dei
rumori o delle combinazioni in cui questo è molto chiuso, tutto questo è come
se stringesse, come se si occludesse molto di più rispetto a quello che è l'adattamento
dell'orecchio, della vista o delle senzazioni o delle vibrazioni o quello che
è la mente normale di Homo sapiens. Allora io devo proprio usare dei sistemi
anche tecnici, dei meccanismi, tali per cui quell'altro elemento, entrando in
relazione con questo, si accoppia e diventa assente e entra in questo accoppiamento
che comunque è zero, per quello che sento io.
Ma non è un sentimento soggettivo,
è il fatto che io credo che la mente di ognuno di voi se uscisse da questa prigione
- la mente, l'attività pensante, l'attività vivente -, se l'attività vivente si
facesse più silenziosa, se fosse più capace di avvicinarsi a quello che io ho
chiamato il punto d'estinzione, di cui parleremo, che c'è nella presentazione
del Corso, allora tutto questo sistema diventerebbe molto più grande. Allora tutti
i vari suoni compresa questa musica giapponese che per me è magnifica, io la sento
come magnifica, è capace di ruotare: la chiamo 'rotazione'. E' capace di ruotare,
di mostrare l'altro lato di se stessa, che non è quello che è così ottundente,
ma è così ottundente per i corpi che tendono ad essere occlusi, allora questa
musica suona occlusa. Se il corpo di chi ascolta si ritira, ma bisogna stare attenti
che il ritirarsi non significa scappare, si ritira cioè si fa più silenzioso;
allora questa musica parla immediatamente un altro linguaggio e dove parla quest'altro
linguaggio io vado a beccarla, vado a suonare la mia musica che ne va a prendere
la coda.
Tieni conto che io sto lavorando con il canto gregoriano, che essendo
un canto così tranquillo, così lieve, così silenzioso, è una cosa di una durezza
infinita, è una traccia di permanenza fortissima, e io per prendere quella coda
faccio mille volte più fatica che non prendere questa musica giapponese, perché
poi questa è del VII secolo, la musica gregoriana è di un po' prima, ma comunque
è andata avanti. Cioè sto equiparando i diversi tipi di musica, e io sento che
il canto gregoriano, che pure all'orecchio normale ha questo silenzio, questo
misticismo, è di una tensione, di una durezza al suo interno fortissima, e io
proprio lì devo fare veramente grande fatica per riuscire a coglierne la coda
per poterla girare, per potere dare il senso. Perchè questa musica giapponese
non è che manchi di qualche cosa, forse è troppo monotona, troppo rigida perché
ha dentro di sé tutte le componenti religiose probabilmente; quello che io cerco
di fare con la mia musica è di sollevarla da questi canoni così antichi, così
conservatori in un certo senso, e allora con la mia musica cerco di dare questo
elemento di una rivoluzione, di un cambiamento, di una mutazione.
Comunque
quello che si dovrebbe sentire della mia musica è sempre un piano indiretto, è
un altro livello dove i suoni realmente suonano, dove le cose non sono cose. Per
quello che io dico che la cosa non è più cosa, in un campo più ampio la cosa non
è più cosa, il suono non è più quel suono, il suono diventa astratto, diventa
altro. D'altra parte anche tu hai ragione perché questa musica al primo impatto
è veramente durissima; quando l'ho messa su la prima volta mi è piaciuta moltissimo
perchè sentivo questa durezza, ma che poteva essere girata, che poteva essere
lavorata dal mio punto di vista, dal punto di vista di una sua mutevolezza, di
una sua possibilità di essere ulteriormente aperta.
Fabrizio Stangalini:
Oltre che la durezza si porta, secondo me, dentro di sé una grossa caratteristica
di individualità, trovo che è molto rappresentativa, chissà chi l'ha scritta perché
non è che le scrivevano allora, era molto una tradizione di memoria, di mito,
e di uso degli strumenti. Ha dentro di sé, almeno io ho percepito, un forte ego.
Paolo Ferrari: Forte...?
Fabrizio Stangalini: Forte ego. L'interessante
è stato proprio che con la Musica dell'Assenza c'è stata questa trasformazione;
soltanto che io sentivo più o meno come se fossero due aspetti diversi, con la
musica giapponese e con Debussy. Con la musica giapponese questa caratteristica
che tu chiami durezza, io invece l'ho percepita come una manifestazione molto
forte di 'io', molto determinata, che poi si è stemperata; in effetti si sente
che gira, si sente che poi perde moltissime delle sue caratteristiche, via via
che lo spazio creato dalla Musica dell'Assenza si diffonde.
Paolo Ferrari:
Comunque bisognerebbe poi sentirla in registrazione quando la si può sentire nel
suo insieme, non con due strumenti separati, ma in registrazione più insieme e
si capisce il tipo di intreccio, ma perché è un'abitudine a sentire in un altro
modo, ad ascoltare, un abitudine ad un ascolto affettivo; cioè più che ego io
dico una presenza, perché non so se è l'ego, è una presenza molto intensa, una
presenza che dice: Ci sono io e non c'è nessun altro, perché è la
musica dell'Imperatore, per forza.
Va bene, così abbiamo avviato i Seminari.
Adesso io vorrei che le prossime volte riuscissimo a parlare un po' di più, a
definire i campi sempre di più. Il 7 dicembre è Sant'Ambrogio, direi che ci vediamo
giovedì 14.
Arrivederci.