1/6/1995

8 Seminario 1994-1995

Paolo Ferrari: E' il penultimo incontro di quest'anno.
Ci sono due aspetti, due vie, due strade da percorrere: una che è quella di un incontro più ravvicinato, cioè che ci fosse per il seminario una maggior partecipazione diretta delle singole persone, oltre alla partecipazione collettiva che mi sembra ci sia. Potremmo dedicare alla partecipazione collettiva, a un possibile iniziale dibattito il prossimo incontro del 29 giugno, sui temi che abbiamo sviluppato quest'anno che mi sembrano vari e sostanziosi. E anche magari stasera, se c'è la possibilità, perché stasera pensavamo, Susanna e io, di tentare di fare una specie di dialogo non precedentemente preparato su temi che vertono sulla differenza, sulla cosiddetta differenza, introdotti da un'esperienza che stiamo conducendo, che è molto interessante, attraverso l'intervento di ragazzini di V elementare che sono venuti qui in visita e hanno posto e disposto domande, disegni, segni, linguaggi, formulazioni dell'intelletto veramente di grande interesse, quasi anticipando - io dico - certi fenomeni che potrebbero essere l'espressione già nel futuro dell'assenza. Cioè si sono viste delle manifestazioni, delle espressioni, delle attività mentali in soggetti di undici anni, che non mi sarei aspettato; non mi sarei aspettato, ma non tanto per la capacità spontanea del ragazzo o del bambino di rispondere a certe sollecitazioni, ma soprattutto per una articolazione complessa che è venuta fuori da questa interazione tra loro, questo luogo, tra loro e me, tra loro e noi che eravamo qui presenti. Questo ha fatto sorgere in me diversi interrogativi di quale sia la possibilità di una via nuova aperta, di un encefalo che è ancora in maturazione, di un corpo che è ancora in maturazione, che è sulle soglie della pubertà, che è una fase prepuberale, perciò di nuovo aperta a tutta la condizione edipica, alla ripetizione della condizione edipica che si è manifestata già al terzo anno di vita, in un sistema che allora è aperto, che è ancora immaturo; e quindi l'apertura di un sistema immaturo che ha perciò la possibilità di interagire anche all'interno di se stesso attraverso vie che si aprono o si chiudono se sollecitate in maniera giusta. Quello che ho osservato è il fatto che, immessi questi ragazzi in un luogo come questo che - io dico - è presumibilmente diverso, è questo luogo differente, è questo luogo altro rispetto a quello che è la quotidianità, ma anche quello che è il mondo del linguaggio normale, non solo normale, ma anche del linguaggio in generale - il linguaggio artistico, il linguaggio scientifico, il linguaggio filosofico, il linguaggio matematico -, questi ragazzi hanno risposto con un loro linguaggio che non era quello filosofico, non era quello quotidiano, non era quello logico dovuto alla loro età, quello razionale dovuto alla loro età, quello emotivo, quello puberale, quello preadolescenziale, ma hanno risposto con un linguaggio più complesso, quasi rispondendo a certe sollecitazioni che questo luogo, essendo luogo altro, produceva in loro, superando d'un botto tutte le resistenze e tutte le barriere, come agendo a un livello - come io chiamavo una volta questo livello di cui ci occupiamo - subliminale; ma non intendendo il livello subliminale come viene inteso normalmente nella comunicazione parapsicologica, nella comunicazione dei messaggi che passano sotto la soglia della coscienza, ma come se la coscienza rispondesse, ci fosse un altro livello di coscienza già in formazione che potesse rispondere in qualche modo se immesso in un luogo adatto, interattivo rispetto a questa situazione, a questo campo ricevente, a questo campo relativo capace di nuova relazione. Di tutto questo faremo una mostra, poi probabilmente faremo una pubblicazione.
Lavoreremo anche intorno a questo tema, che, combinazione, è un tema di cui mi sto occupando ultimamente, proprio circa l'immaturità dei sistemi, cioè dei sistemi quando sono ancora immaturi, quando un sistema cerebrale è ancora immaturo, quando un sistema biologico è ancora immaturo, quali potenzialità abbiano questi sistemi prima che si fissino nelle loro ancestrali strutturazioni o proprietà dovute alla specie, alla specie animale da cui l'umano deriva. Non sto adesso a dire le diverse ipotesi che sto elaborando da diversi anni circa la strutturazione del nostro encefalo, del nostro cervello, del nostro ente biologico generale, di come possa essere vieppiù capiente e di come la specializzazione in un certo senso sia dovuta a un'evoluzione troppo rapida, a una maturazione troppo rapida, per poter far conto e per far fronte a un ambiente, a un ecosistema non adatto o adatto soltanto in parte; di come il sistema debba maturare velocemente, anche se è vero che il sistema umano è quello che matura più lentamente rispetto a tutti gli altri sistemi biologici che ci sono in natura, e questa maturazione troppo in fretta produca delle sclerotizzazioni, ma ci sia tuttavia un margine tale per cui questo sistema che si è chiuso all'apparenza possa ancora parlare, possa ancora aprirsi - quello che io vedo quotidianamente nel mio lavoro come terapeuta in cui apro determinate vie che parevano chiuse, chiuse per sempre, sclerotizzate dalla patologia mentale, psicologica.
Allora abbiamo due sistemi: abbiamo questo nuovo sistema, questo sistema in maturazione, abbiamo questo luogo altro, questo luogo della diversità. Questo luogo della diversità è questo in cui noi viviamo anche in questo momento, e questo è un luogo diverso per le relazioni che vi sono, come spesso ho detto: queste relazioni assenti che esistono in questo luogo, nella sua forma che continua a essere cangiante, questo tipo di comunicazione che, pur essendo accoglibile dal punto di vista razionale, dal punto di vista emotivo normale, però contiene al suo interno la sua assenza, il suo venir meno, e cioè si scava nel momento stesso che si dice, scompare nel momento stesso che si mostra, però sempre di più lascia una traccia. Abbiamo questo altro sistema dei ragazzi che sono venuti in visita, che stanno lavorando circa questo tema: sono venuti in un luogo diverso, in un luogo altro e stanno rispondendo a questo luogo altro in maniera differente. Allora questo tema del luogo altro, del luogo differente, del luogo diverso, storicamente diverso, formalmente diverso per i segni, i disegni, è capace di dare nuovi tipi di informazioni, è capace di dare nuovi messaggi, è capace di formulare nuove distanze, nuove differenze, nuovi avvicinamenti, nuove relazioni. E questo è il tema di stasera, che può essere visto dal punto di vista dei ragazzi, può essere visto dal punto di vista di un articolo di psichiatria di cui vi parlerà Susanna, da un punto di vista della storia politica, del pensiero filosofico politico relativo alla follia, relativo alla differenza della follia - e questo luogo è differente -, relativo al bisogno che gli uomini hanno che ci sia un qualche cosa al mondo che comunque abbia la differenza, perché altrimenti tutto il mondo sarebbe omogeneo e in questa omogeneità probabilmente la capacità di pensiero umana non si sarebbe neppure sviluppata, non si sarebbe prodotto nessun tipo di evoluzione se l'evoluzione non fosse entrata essa stessa in un campo di differenza.
Ti lascio la parola.
Susanna Verri: L'articolo di cui parlava adesso Paolo è un articolo di Pieraldo Rovatti comparso martedì sul Manifesto relativo a un convegno sul pensiero di Basaglia che si è tenuto a Trieste in questi giorni dal titolo 'Follia e paradosso'. Perché parlare di questo articolo questa sera? Ho pensato di poterlo fare perché mi è sembrato che questo articolo tracciasse, toccasse, diciamo, una di quelle zone di confine di cui avevo parlato nell'intervento dell'altra volta al seminario, cioè uno di quei temi del pensiero attuale che giungono ai confini di un muro che non riescono a superare e che tuttavia a noi interessano appunto per questo loro essere temi di confine, sul margine cioè di un'apertura che poi essi non trovano perché non esiste probabilmente all'interno del pensiero ordinario; mentre invece quello stiamo cerchiamo di esplorare è come questa apertura esista, affrontando i temi, il pensare e il vivere da un punto di vista di tutt'altro pensare, cioè dal punto di vista del pensare dell'assenza.
Il tema della follia è un tema antico che ha percorso la storia dell'uomo, che ha percorso la cultura, che ha percorso la mia storia anche professionale e personale come interesse molto precoce ed estremamente coinvolgente; è un tema di cui quindi parlo molto volentieri, diciamo, in questa sede. Il tema della follia è già di per sé un tema di confine per eccellenza, perché direi che è il luogo dell'altro, è il luogo in cui comunque, anche nella cultura esistente, anche all'interno del pensiero dato, si è cercato di situare, via via di emarginare, di escludere o di capire, a seconda delle diverse posizioni assunte, l'altro. Dal punto di vista culturale il tema della follia è uno di quelli che sicuramente hanno tentato di affacciarsi sull'altro, sull'altra faccia, sul pensare altro. Dal punto di vista dell'esperienza, dal punto di vista di quello che sia invece la follia, quindi non dal punto di vista culturale, ma dal punto di vista di ciò che essa è o non è, l'esperienza della malattia mentale, della malattia mentale grave, dell'alterità, è appunto altra per eccellenza.
L'articolo di cui dicevo solleva il tema della follia come paradosso, riprende il pensiero di Basaglia che cito molto brevemente per chi non ne fosse a conoscenza, anche se penso che questa sia una cosa di conoscenza ormai comune. Basaglia è uno psichiatra morto nel 1980 che ha svolto una funzione importantissima all'interno della cultura e del movimento psichiatrico in Italia, ma direi anche europeo, facendosi propositore di un filone della psichiatria che ha portato, dopo lunghe lotte - come si cita in questo articolo - e dopo importantissime esperienze all'interno di alcuni manicomi che si è trovato con la sua équipe a dirigere, a una nuova concezione mai prima esperita del rapporto con la malattia mentale, del rapporto con i malati, dell'istituzione psichiatrica stessa e poi anche alla revisione di quella che era la legge che governava tutta la struttura manicomiale in Italia; e quindi ha portato alla formulazione della legge che ancora attualmente governa la psichiatria e che ha sancito la chiusura dei manicomi, quella che è stata chiamata la chiusura dei manicomi, quello che è stato questo passaggio per cui il manicomio ha cessato di essere una struttura chiusa in cui potevano avvenire ricoveri che durassero anche anni, in cui i malati fossero chiusi e rinchiusi, esclusi dalla società e lì segregati. La chiusura dei manicomi ha portato poi a un tentativo di strutturare la terapia psichiatrica anche delle malattie molto gravi all'interno di strutture ambulatoriali, di case alloggio, di cosiddette strutture intermedie create all'interno di strutture della società. Quindi è stato un passo radicale nel tentativo di abbattere le strutture coercitive, le barriere che si era tentato di costruire intorno alla malattia mentale.
Fin qui la passione per l'antipsichiatria; quindi fin qui tutto quello che è stato il vissuto delle nuove generazioni di psichiatri che negli anni dal '68 in avanti, post 68, '70, '80 hanno creduto e hanno pensato in questa liberazione della malattia mentale e in questo abbattimento del muro manicomiale. Il muro manicomiale ha una lunghissima storia che è la storia della segregazione della follia, dell'altro da sé, nel tentativo di isolare la diversità e di pensare che non esistesse. Fin qui, dicevo, il pensiero consueto, anche il mio. Solo che ultimamente - e questo è il motivo per cui mi è sembrato interessante parlare di questo tema - mi è capitato di considerare tutta la faccenda da un altro punto di vista, cioè mi è capitato, più che in altri periodi in passato, di fare un pensiero un poco diverso da questo che ho appena esposto. L'articolo di cui ho parlato parla di Basaglia, accenna a tutte queste cose che vi ho detto, ma solleva comunque un problema: il problema di come sia necessario fare attenzione in qualche modo a un pericolo che può essere sotteso, diciamo, all'inserimento della malattia nella società. Il pericolo è che avvenga un processo di normalizzazione - dice l'articolo - cioè il pericolo, di cui anche Basaglia faceva edotto chi lo seguiva e di cui Basaglia stesso parlava, era che avvenisse una normalizzazione della follia, cioè che fosse in qualche modo negata l'esistenza di una malattia, che fosse negata l'esistenza di un essere nella follia, di un'esistenza nella follia. E quindi l'articolo termina sollevando la questione politica, la portata politica del discorso di Basaglia: la questione sarebbe che anche la follia è comunque un esserci nella follia, ha un suo valore di esistenza e quindi il paradosso degli operatori, il paradosso di chi opera in questo campo, ma il paradosso di ciascuno - perché dice anche questo l'articolo - è che comunque la follia è un qualche cosa che non è estraneo, ma è di ciascuno; allora il paradosso sarebbe quello di conciliare questo esserci nella follia con una normalità, un paradosso non risolto al momento attuale, che viene lasciato sospeso, che è di portata anche politica perché implica poi tutta l'impostazione di certi interventi che possono essere fatti, anche sociali, pubblici, terapeutici, eccetera.
Fin qui l'articolo. Quello che dicevo prima, cioè la questione che a me si era posta e che vi pongo a mia volta è che - ne parlavo con Paolo anche oggi - il problema sembra essere più ampio e di più innovativa portata: cioè il problema sarebbe quello che ogni discorso relativo alla malattia mentale o alla follia, se vogliamo usare questo termine più classico, è da porsi nell'ambito di una differenza che non va eliminata in quanto non parliamo di un esserci, non parliamo di un essere nella follia - come è stata posta invece posta la questione da tutta la corrente fenomenologica -, non parliamo di un esistere nella follia perché, se facciamo in questo modo, questa esperienza viene non solo razionalizzata, ma viene portata nel campo dell'essere, dell'esistenza, di ciò che è, mentre questa è radicalmente, per suo statuto, per suo modo, ciò che è altro, che non è, direi anche che è al di là di una differenza che non va colmata; e quindi il problema è quello di mantenere questa differenza, cioè il problema è quello di un approccio, di un modo di pensare che sia, che possa essere nel rispetto di questa differenza. Questa considerazione allora mi ha portato a fare un pensiero che per me è assolutamente paradossale, per quello che penso io solitamente, ed è un pensiero relativo al manicomio stesso, all'istituzione manicomiale: cioè posto questo tema della differenza - è un paradosso quello che vi sto per dire -, allora l'istituzione manicomiale in un certo senso posso dire che probabilmente ha sempre espresso un doppio atteggiamento nei confronti della follia: quindi la segregazione, la repressione, molto spesso anche la violenza, il tener lontano, il circoscrivere da un lato, ma il circoscrivere è anche delimitare, è anche mantenere altro. Ed è un paradosso pazzesco questo, perché ritengo che il manicomio non debba esistere, però sto facendo questa osservazione a lato perché è interessante lo spostamento del punto di osservazione: allora il manicomio, la struttura manicomiale d'altro canto in qualche modo definiva un'alterità. Chiaramente la questione non è certamente quella di mantenere il manicomio per mantenere questa alterità, la questione sarà eventualmente, tolto il manicomio, di cercare di pensare un modo, una cultura, un pensiero, un'esistenza tale per cui anzi questa alterità venga ulteriormente conosciuta, si impari a vivere, a pensare e a relazionarsi nella differenza.
Ecco ho forse preso un po' tanto spazio in questo tema che aveva una sua complessità e quindi mi posso fermare per adesso.
Paolo Ferrari: Voglio riportare questi temi della malattia mentale o del manicomio, della circoscrizione di fenomeni a quello che ci concerne o mi concerne.
Noi abbiam fatto questo iter e facciamo questo iter ogni volta che ci incontriamo lungo una situazione assolutamente paradossale - come spesso ho detto -: cioè ci siamo messi a ragionare intorno a un qualche cosa che implica proprio il fatto che la ragione debba tacere, ma non solo la ragione, ma anche l'emozione e anche l'affetto e anche il corpo e anche la struttura biologica così come hanno parlato fino adesso. Abbiam posto, ho posto il fatto che occorre un certo tipo di distacco, il quale distacco è un distacco tale per cui il campo di osservazione diventa assolutamente vuoto.
Ora ci era sembrato interessante prendere questo tema, che viene ripreso attualmente, circa la psichiatria degli anni '70 e '80 e in particolare a Trieste dove siamo andati anche a far visita e abbiamo parlato di questo luogo altro, di questa differenza, per percorrere un cammino e per capire meglio come i modi di interpretare la realtà, come possono essere quelli della psichiatria d'avanguardia, hanno attuato nel loro cammino storico e hanno prodotto una serie di modificazioni, di cambiamenti notevoli, storicamente e politicamente, culturalmente, direi. Questo di cui parlava Susanna e questo di cui parlava l'articolo dovrebbe essere il luogo dove viene posta questa differenza: cioè il malato mentale, l'ammalato schizofrenico, la schizofrenia, l'autismo, la patologia mentale grave portano l'individuo a essere in un altro campo, a non essere nel campo in cui si confrontano le ragioni umane. E questo è un tema che attualmente può essere di buon interesse per quello che stiamo facendo. Una volta - come dicevo - il distacco era tale, la distanza del luogo di cui mi occupavo era tale, questo 'altro' era così diverso che non c'entrava nulla con la malattia mentale se non per sbiadite immagini. Adesso i due campi si sono avvicinati, come stiamo vedendo in questi ultimi tempi, in questo ultimo anno soprattutto.
Allora il luogo dove Homo sapiens ha posto l'altro è interessante, può interessarci molto dappresso. E uno dei luoghi deputati a questo è la follia: Homo sapiens ha detto che gli uomini che ragionano in un certo modo o che non ragionano o che si comportano in un certo modo sono uomini folli e devono essere messi in un altro luogo; ma non solo, la follia si è posta come differenza rispetto a quello che è la normalità. Allora in questi movimenti moderni degli ultimi decenni si è detto: “Ma la follia come deve essere pensata? può essere pensata?”, mentre precedentemente la follia non era pensata, era posta in un altro luogo, il folle era folle, punto e basta, il normale era normale ed erano in due luoghi diversi. Allora la follia ha incominciato a essere pensata come un qualche cosa di diverso, un qualche cosa di disposto in un altro luogo e, in quanto ciò, si è detto che non doveva essere segregata, non doveva essere esclusa, ma doveva esserci un processo di integrazione o di inclusione tale per cui la follia dovesse rientrare nel mondo dei cosiddetti normali. Anche qui c'è un distinguo, nel senso che da una parte c'è stata questa idea, questo tentativo di normalizzazione della follia e nello stesso tempo però si è detto: “La follia ha al suo interno una notevole dose di rivoluzione, di cambiamento, di cambiamento dell'essere, cambiamento della struttura, cambiamento della società per cui deve essere mantenuto, deve essere concepito questo mondo diverso, deve essere lasciato esistere”.
Quello che dice questo articolo è questo tentativo, questo paradosso per cui la follia dovrebbe essere non segregata, non allontanata, non esclusa, ma lasciata esistere, ma non del tutto normalizzata, cioè non del tutto razionalizzata. Ma l'articolo o il movimento non mi sembra che riescano a risolvere questo tipo di contraddizione, perché questo tipo di contraddizione si svolge sui margini tra un luogo che è fatto in un certo modo e un luogo che è altro, che è diverso, che è totalmente diverso. C'è un analogia tra questo e quello che dicevamo l'ultima volta del fatto che un luogo è quello della vita, è quello che viviamo nella vita e un luogo è quello della morte - la morte è un altro luogo, diverso, completamente diverso - oppure, quello che dicevamo, c'è la situazione della veglia oppure c'è la situazione del sonno e le due situazioni sono, almeno in gran parte, nettamente diverse, radicalmente diverse.
Allora da questo si comprende come il mondo, come la specie umana, come il pensiero umano abbiano bisogno di porre continuamente questo diverso e di come ci sia bisogno di questo luogo, diciamo, della follia, di come ci sia bisogno di questo luogo della morte, di come ci sia bisogno di questo luogo del sonno, del sogno e, io dico ulteriormente, di questo luogo che sto ponendo che è un passaggio ulteriore. E' un passaggio ulteriore, perché? Perché rispetto al luogo della follia, rispetto al luogo della morte, rispetto al luogo del sonno si pone ancora in un ulteriore distacco, ha un'ulteriore proprietà di distacco rispetto a questi mondi. Il luogo della follia in un certo senso è pensato essere da un parte: prima è stato pensato storicamente come il luogo reietto, il luogo del disturbo, il luogo della negazione, il luogo della paura, il luogo dell'angoscia, il matto come elemento disturbante e la patologia come se non potesse entrare nella storia della società; poi a poco a poco questo è stato in un certo senso pensato in modo tale che potesse in qualche modo rientrare a far parte, anche se sui margini, della società. Ma il pensiero della società, anche il pensiero più avanzato, non può pensare la follia in maniera diversa dal fatto che essa debba avere in qualche modo una condizione ragionevole. Non si può pensare dal punto di vista del luogo della normalità il fatto che la follia non debba essere compresa dentro a dei parametri, a delle proprietà razionali di una logica che non ha contraddizioni; e così la morte non può essere pensata se non nell'ambito di una storia della vita, se non nell'ambito della logica che noi abbiamo applicato al fatto di come funziona la vita, alle differenze che ci sono nella vita, ai canoni attraverso cui la vita è esplicata, è detto esistere la vita.
Come vedete io parlo continuamente di questi tipi di esistenze, cioè come dire che la follia debba avere un qualche tipo di esistenza. Ora circa il fatto che la follia debba avere l'esistenza o che abbia un'esistenza o che abbia una ragione non ne sappiamo nulla. Il luogo manicomiale, quello che è l'esperienza del luogo manicomiale, si vede che è un luogo totalmente altro, totalmente diverso: si parla un'altra lingua, una lingua - noi abbiamo definito - che è autistica, che è a sé stante, ma che è un'altra lingua. Allora il mondo della normalità come fa a portarla a sé se quell'altra è un mondo isolato, è un mondo autistico? Deve fare in modo tale che questo mondo autistico entri in un mondo più ampio e si esplichi dentro questo mondo più ampio o sia in un certo senso ricondotto a questo mondo che è detto dai normali essere un mondo più ampio. In un certo senso io dico che questo è anche vero, è vero anche che il mondo cosiddetto della norma, ma non della norma stupida, della norma appiattita, ma diciamo della norma di un pensiero logico, di un pensiero razionale, di un pensiero affettivo, è più ampio di un pensiero autistico, in generale; ma questo non perché abbia un pensiero retrogrado oppure repressivo oppure perché dico che gli individui normali sono più buoni degli altri - ci mancherebbe altro -, io dico soltanto che c'è stato, secondo me, una specie di mistificazione di tutto il problema perché non si riesce a pensare bene tutta questa questione: infatti questo articolo dice che bisogna pensare la follia in un altro luogo, però questo altro luogo è comunque il luogo della normalità, comunque il matto, il folle che continua a fuggire dalla realtà deve essere fatto esistere nella sua fuga. Si dice: “Egli esiste in quanto fugge”. E io dico: “Questa è una balla. Egli non esiste e perciò fugge”. Allora soltanto da queste due proposizioni si vede che di tutti i sistemi che sono al limite - i sistemi per cui si cerca di comprendere questo mondo altro, che può essere quello della follia, può essere quello della morte, può essere quello del sonno, può essere un altro sistema diverso - sono tutte balle quello che dice il pensiero normale, ma che può essere anche il pensiero filosofico, può essere il pensiero logico più ampio, più aperto possibile. Ma perché? perché non ha gli strumenti per potersi avvicinare a qualche cosa che è altro da sé, che è realmente diverso da sé, perché se includesse questo altro dentro di sé, questo altro da sé, il sistema logico, strutturato nella maniera logica, razionale, affettiva normale salterebbe per aria: la morte non entra dentro la vita, non è mai entrata; in un certo senso neanche il sonno, il sogno profondo, il sogno sono mai entrati realmente nella vita da svegli. E così anche la follia. Io dico che la follia è un luogo molto povero perché si esaurisce in sé, ma lo dico in un luogo che lascia che questo luogo sia diverso, diverso completamente da me, perché ho questa possibilità, ho questo privilegio, ho questo vantaggio del fatto che potendo pensare, potendo esplicarmi in un luogo che è comunque altro - altro da quello della follia, da quello della normalità, da quello della morte e così via, è altro -, in questo luogo che è altro posso mettere, far esistere l'altro che è altro: posso mettere la normalità, la follia, la morte, tutto quello che mi pare perché questo campo è vuoto; cioè io non debbo riportare un qualche cosa dentro un campo che è pieno e riempirlo un'altra volta di questa questione - metto un oggetto qua, un altro oggetto là -, questo campo di cui parlo è vuoto. E questo è il massimo paradosso e io comunque parlo di questo massimo paradosso; questo paradosso sta diventando in certi momenti, anche per me che lo vivo, anche seguendo tutti questi vari temi - i temi dei ragazzi che hanno fatto questi disegni - sempre più difficile da sopportare, da accettare, da vivere, nel senso che è come se dicessi a me stesso di diventare sempre meno vuoto, sempre meno assente, sempre meno altro in modo che l'altro possa stare in questo altro, cioè che la distanza diventi minore, che il discorso, come quello di stasera, si faccia sempre più definito, sempre più razionale, sempre più consono a quello che è il vecchio sistema, in un certo senso; però che non abbia le radici del vecchio sistema perché comunque le radici del vecchio sistema io gliele tolgo. Allora togliendo queste radici del vecchio sistema posso dire che la follia la capisco, ma perché la metto in un luogo altro. E' quello che diceva Susanna per cui sono stati fatti i manicomi, per cui sono state fatte le prigioni, per cui sono stati fatti tutti questi mondi diversi: è come se Homo sapiens oppure l'evoluzione in generale abbia bisogno della diversità, ma per portare, per porre la diversità purtroppo ha dovuto produrre l'aggressività, ha prodotto violenza. Dico invece, dal sistema da cui io parlo, che non produco nessuna violenza, pongo la diversità in quanto sono diverso, pongo nell'io l'essere diverso.
Un ulteriore fatto è che è interessante questo luogo a cui gli uomini hanno tentato anche di venire incontro: Basaglia ha fatto un grosso lavoro, come hanno fatto un grosso lavoro Laing o Cooper o tutti questi movimenti psichiatrici, oppure la psicoanalisi stessa, Freud stesso. Comunque si è posta la psicoanalisi in un modo altro, in un luogo altro dove ha incominciato l'analisi: nell'analisi dell'altro l'altro è messo su un lettino, è segregato in un certo senso, è messo dall'altra parte: l'analista da una parte, quell'altro dall'altra parte - sono due mondi separati. Sono dei tentativi di portare questo diverso a farlo esistere. Nel momento stesso in cui posso porre questo diverso e farlo esistere e porlo lì, gli do anche un elemento in cui dico: “Guarda che puoi anche non esistere secondo il sistema in cui io sto esistendo, cioè sei altro.”
Allora mi chiedo: perché la follia mi ha sempre interessato o perché mi sono messo a curare i pazienti, la patologia? Perché la patologia è comunque altro, è diversa comunque rispetto a quello che è stata la norma, ha un nucleo che è diverso, è molto povero in sé perché è povero, non ci sono balle; la schizofrenia è povera: è inutile che dicano i fenomenologi che le grandi idee nascono dalla schizofrenia, la schizofrenia è povera, è vuota, però ha un vuoto - il vuoto lo conosco bene da un'altra parte dove è molto ricco, però è vuoto - e anche questo è vuoto, quindi essendoci il vuoto e comunque essendo in altro luogo, proprio in quanto altro luogo, può essere grandemente ricca, può produrre, se esce dalla povertà, un grosso movimento intellettuale, spirituale, politico, sociale in quanto è diversa, in quanto è posta lì, ma se esce dal suo isolamento. Esce dal suo isolamento, ma non deve venire nel mio o nel sistema generale, deve starsene nel suo e, come ognuno, formare il suo mondo diverso da quello dell'altro: la follia crei il suo mondo, l'individuazione di una persona crei la sua individuazione e ognuno stia nel suo mondo. Ma 'nel suo mondo' non significa che non comunica con gli altri, ma che comunica con gli altri nel suo modo, che trova il suo linguaggio. E allora è una questione di linguaggio: questi linguaggi che per esempio stiamo studiando con i bambini, con i ragazzi venuti a contatto con un mondo che è comunque diverso, che è comunque altro.
In generale dico che - è interessante questo, è interessante anche questo sviluppo che sto dando a una serie di questioni - in un certo senso noi, cioè tutti gli uomini, Homo sapiens, è altro, cioè lui stesso è altro - ma questo credo che sia stato già detto, non in una formulazione come la dico io, però -, nel senso che presuppongo che nella natura ci sia stato lo sviluppo dalla cellula all'animale, al primate, tac! questo primate sviluppa il cervello, nasce la neocorteccia, nasce il lobo temporale, nasce la parte neocorticale, nasce il linguaggio, nasce tutto questo. Credo che nel pensiero della natura, ammesso che ci sia un pensiero - adesso dico pensiero tra virgolette ovviamente, ma per dire nel progetto intrinseco che si stava sviluppando -, non ci fosse il fatto che quest'uomo si mettesse a pensare. La neocorteccia si è sviluppata, secondo me, perché questo doveva muoversi meglio, doveva diventare più abile, adattarsi un po' meglio all'ambiente, alzarsi in piedi, fare le sue cosette come doveva farle, ma la natura non sapeva che queste cellule a un certo punto improvvisamente si mettessero a fare un'autoanalisi, incominciassero a pensare perché gli uomini erano al mondo, perché se stesso era al mondo, perché faceva i suoi disegnini nelle caverne, i suoi disegnini un po' autistici, ma comunque dei disegnini.
Cioè la natura è stata sorpresa, è nato l'altro: cioè da questo troncone della natura in cui si è formato il cervello è nato improvvisamente un pensiero, è nato quello che poi noi chiamiamo lo spirito, è nata la cultura; tutto questo la natura non lo sapeva e tuttora non lo sa, per cui c'è una disgregazione, una scissione grandissima, una schizofrenia grandissima tra quello che la natura continua a fare, la struttura biologica, la storia biologica continua a fare e questo altro che è nato. Cioè l'uomo rispetto alla natura è folle, è il folle naturale, è il totale folle perché ha formato una cultura che non c'entra niente con la storia biologica, e allora gli uomini, l'Homo sapiens finché non riesce a modificare questa natura secondo questo nuovo sistema sarà sempre schizofrenico, cioè è altro rispetto a una natura che continua a identificare l'uomo come una parte di sé, mentre l'uomo si è staccato.
Punto. Finito.
Adesso suono un pezzo.
Susanna, vuoi andare avanti tu?
Susanna Verri: Mi piaceva questo discorso, però d'altro canto è molto compiuto questo discorso che hai fatto. Certo, perché sei arrivato sul tema della schizofrenia di ciascuno...
Paolo Ferrari: No, di Homo sapiens...
Susanna Verri: ... di Homo sapiens e anche di ciascuno...
Paolo Ferrari: ... e di ciascuno rispetto alla sua natura di Homo sapiens, diciamo della specie in generale, non di ciascuno, più della specie che non ha ancora capito, cioè l'altro non ha ancora capito, non si capiscono i due sistemi.
Susanna Verri: E' proprio questa la schizofrenia, no?
Paolo Ferrari: Eh, sì.
Susanna Verri: ...della scissione, della separazione...
Paolo Ferrari: Non si capiscono ancora, non si capiscono.
Susanna Verri: Uno non sa dell'altro. Uno non sa dell'altro o non si capiscono?
Paolo Ferrari: Non si capiscono e uno non sa dell'altro, cioè la natura biologica non sa che esiste l'altro, non ci capisce niente, non può capirci, però allora deve essere modificata radicalmente fino in fondo, per cui quello che sto tentando di fare tramite l'assenza è il fatto che il corpo diventa altro, che tutto viene 'immentato', tutto diviene questa assenza di materia, pur rimanendo l'involucro attraverso cui sto parlando; ma tutto diventa continuamente assenza di materia ed è difficile questo da capire anche per me. Sto cercando di capire che cosa sia successo storicamente, biologicamente, ma questo dovranno essere altri temi, cioè questa estinzione della materia e della materia biologica, della storia biologica, del campo evolutivo che nella mia vita, nella mia storia ha imparato a estinguersi e si è estinto e ha lasciato il fatto che l'altro parlasse. E quindi io non mi sento più altro anche se devo combattere tuttora con un sistema naturale che è ancora vecchio, un sistema biologico, ma anche di Homo sapiens o dello spazio o della fisicità che è ancora vecchio e io sto continuamente immettendo informazioni su informazioni di quest'altro sistema in modo che i due sistemi possano parlarsi; infatti quello che sto facendo stasera è che il vostro sistema parli col mio, e a mano a mano sta succedendo.
Susanna Verri: Perché questo aspetto è interessante: che l'immissione d'informazione..., cioè che c'è un'attività possibile tale per cui i due sistemi possano parlarsi.
Paolo Ferrari: Ma è un'informazione diversa da quella che c'è stata fino adesso, è un altro tipo d'informazione.
Susanna Verri: Certo.
Paolo Ferrari: Cioè non basta più l'informazione...
Susanna Verri: Noi diciamo informazione perché non sappiamo che cosa dire, probabilmente.
Paolo Ferrari: Eh, sì. Non basta più il linguaggio normale, occorre questo linguaggio che comunque è assente da sé, cioè è staccato dalle radici biologiche, parla staccatosi da sé; e allora questo produce il fatto che l'altro incomincia a staccarsi da sé, incomincia a staccarsi da questa sua specie di naturalità da cui lui pensa di derivare, non accettandosi ancora completamente altro e non potendosi accettare come altro e quindi ubbidendo alle pulsioni, all'inconscio di tutto il mondo passato.
Susanna Verri: Certo, perché sembra proprio che questo stacco - del resto il distacco di cui si stava parlando -, questo stacco anche da sé, sia l'elemento fondamentale perché si apra un varco, uno spiraglio, una possibilità di minor resistenza.
Paolo Ferrari: Sì. Suono un pezzo. Ho fatto un pezzo di cui alcuni di voi hanno già sentito due parti. E' un pezzo che sto facendo sullo sviluppo e sullo svolgimento della giornata - un tema naturalistico grosso modo, anche se è estremamente astratto -, di una giornata che nasce con la nascita dell'alba, si sviluppa con le prime ore del giorno, arriva fino a mezzogiorno; è un luogo del mare, ma è anche il luogo della collina, il luogo di un mondo che è un mondo che è radicato nell'essere mondo, ma è anche continuamente sospinto ad essere altro, a dialogare in un altro modo che non sia la sua vecchia materia: è come se io sfidassi in questo modo la materia, il luogo, le rocce, il mare, le ombre, i silenzi, le frammentazioni delle voci, le persone, il sole, lo sfidassi in modo che potesse staccarsi da questo mondo terra-mare e potesse dialogare su un altro livello che è questo livello molto più astratto in cui invito la terra e il mare a staccarsi da sé e venire in questo campo che è più vuoto, che ha una capacità di espressione, di linguaggio, di vita, di morte - chiamiamola così - in un luogo differente, in questo luogo altro che io abito.
Adesso farò il raddoppio. Ho già fatto il primo piano, già il primo piano poteva essere già abbastanza completo, e complesso e completo, adesso ne faccio un contrappunto variato, ma leggero; in certe fasi penso che lo farò appena accennato perché c'è già tutto un piano che si sta svolgendo e questo piano che si sta svolgendo è l'epoca della giornata che si svolge dalle due alle quattro, poi ritorna alle due, ritorna a mezzogiorno, riprende alle due, poi alle quattro, alle cinque, arriva fino al tramonto e c'è un presagire poi del tramonto e della morte.
[Paolo Ferrari esegue la pianoforte il secondo livello di una Sonata precedentemente composta - il pezzo ha una durata di circa 10 minuti]
Allora, preparatevi le domande per la prossima volta. Vediamo la prossima volta di costruire in qualche modo, di costruire proprio un lavoro su come si è sviluppato lo studio, questi linguaggi mancanti o mancati che sto sostituendo senza riempire, di questa radicale affettività, di un'affettività che è assente, assente nel senso che non si appiccica, di questo luogo dell'altro, della follia, della morte e anche della normalità altra, di una normalità più costruita, più articolata, più astratta. E noi nel frattempo andiamo avanti a fare questo studio che abbiamo cominciato con questi ragazzi che sono anch'essi il luogo altro, hanno visitato il luogo altro, hanno ascoltato la musica altra.
Vi saluto.