17/3/94
VI SEMINARIO1993-1994
Paolo Ferrari: Ci
eravamo lasciati l'altra volta parlando di un tema molto importante. Avevamo
incominciato a trattare a fondo della relazione tra la coscienza e la morte;
una relazione che la filosofia, la medicina, la psicologia, le scienze in generale
mi sembra abbiano lasciato abbastanza di lato, pur dicendone moltissime cose,
scrivendo volumi su volumi, facendo infinite indagini, ma senza mai poter approfondire
questo tema in maniera più fattuale, in maniera quasi più fisica.
Avevo detto l'altra volta che mi stavo occupando di un saggio, di un nuovo saggio
che avevo incominciato a intitolare 'Astrarre la Morte, astrarre la Musica',
facendo un parallelo tra un processo che il corpo fisico e il corpo mentale
facevano per arrivare a produrre un livello diverso della coscienza di morte
e della morte tout court, della condizione di morte, e quello che era la nuova
musica che andavo componendo, la Musica dell'Assenza.
Questi sono comunque temi, diciamo, del futuro della specie umana, sono temi
totalmente inattuali; cioè la specie umana attualmente non è in
grado di produrre siffatti pensieri e, diciamo, siffatte azioni perché
quello di cui mi sto occupando è in fin dei conti l'atto, oltre che l'apparato
del pensiero, è l'atto del pensiero, è l'azione del pensiero.
E' interessante oltretutto sapere in quale luogo di voi questi tipi di pensiero,
questi tipi di atto vanno a formarsi, vanno a prendere luogo, vanno a produrre
ulteriore pensiero, cioè vanno a produrre assenza. Anche perché
una volta dicevo che questo tipo di attività nuova, assente, avrebbe
avuto un inizio fra quattro milioni di anni; poi avevo fatto un po' di sconto
e ho detto che forse fra mezzo milione di anni o centomila anni a poco a poco
si sarebbe potuto pensare in maniera già differente; adesso mi sembra
che giorno per giorno [si evidenzi] tutto quello di cui sto parlando, di cui
sto pensando da anni e sto esperimentando su di me in campo cognitivo, in campo
clinico, in campo storico, che sto osservando in campo musicale, che sto osservando
ultimamente nel modo linguistico.
Allora, facendo un po' di storia anche di questo saggio che cercavo di comporre,
mi sono portato avanti, appresso con me, verso questa astrazione ulteriore del
campo di morte per vedere che questo campo potesse essere svuotato, come io
avevo cercato di svuotare - avevo prodotto a mano a mano uno svuotamento della
realtà concreta, degli oggetti, delle cose, del mio stesso essere corporeo,
di tutta l'individuazione somatica che la specie aveva fatto -, e come questa
condizione dell'essere morto potesse porsi, potesse disporsi e in fin dei conti
che lingua avesse, con che linguaggio parlasse.
Nello sviluppo di questo tema a un certo punto mi sono accorto che la strada
era troppo irta, troppo densa di conseguenze, densa della corporeità
stessa presente degli uomini, corporeità nella quale la dimensione mortale
si configura e si sostanzia. Nel procedere di questo saggio era come se si formasse
una specie di grande resistenza, di resistenza stessa della scrittura, di resistenza
della stessa sostanza, materia biologica, la quale materia biologica molto a
fatica ha accettato comunque di avere un pensiero. Cioè alla materia
biologica sono occorsi tantissimi anni, milioni di anni perché a un certo
punto si arrendesse, come dico, arretrasse di un passo, accettasse in qualche
modo di cedere di sé, di cedere della propria materia, della propria
vita biologica perché un alcunché d'altro si potesse fare: e questo
è stato il pensiero cosciente.
Questo concetto che la materia biologica nell'evolversi abbia dovuto cedere
di sé, abbia dovuto in un certo senso, in qualche modo morire di una
vita, di una vita biologica, cedere di certi attributi, di certi meccanismi
biologici eccessivi per far posto a un pensiero, mi sembrava fino a un anno
fa un pensiero molto complesso, molto astratto, molto lontano, molto difficile,
anche, da comunicare; ma poi parlandone adesso mi sembra che sia una cosa sufficientemente
ovvia, sia una cosa naturale: a mano a mano nello sviluppo evolutivo s'è
prodotto un avanzamento delle specie, dalla materia inorganica si è passati
alla materia organica e poi dalla materia organica si è passati alle
strutture più complesse, alle strutture sessuate e infine ai processi
complessi del vivente e quindi ai processi del pensiero astratto e cosciente.
Mi sembra che l'espressione di un modello per cui certe barriere a poco a poco
cedono e lasciano subentrare un qualche cosa che è più vuoto,
che è più astratto, che è meno concreto del precedente
sia adesso un modello sufficientemente elementare: si pensi soltanto, nell'ultimo
stadio, all'animale il quale ha comunque un embrione di pensiero ma non certamente
un pensiero consapevole, ha una serie di riflessi condizionati, ha capacità
di comportamento, ha delle risposte di fronte a certi stimoli, ha delle piccole
elaborazioni talvolta del linguaggio, si può dire. Il modello per cui
l'animale, la struttura biologica animale ha in sé un eccesso di vita,
è tutta funzionante in base a determinati cicli della natura, certi cicli
biologici - per cui c'è la nascita, c'è la crescita, c'è
la morte, c'è la fase della riproduzione, c'è la fase dell'allattamento
dei figli, c'è la fase del periodo ormonale, del periodo fecondo perché
ci sia l'accoppiamento -, è tutto costruito secondo questi moduli di
tipo vitalistico, di un'energia, chiamiamola per semplificare, vitale, entro
un sistema naturale che ha dei cicli che si ripetono tali e quali.
Ora, per arrivare all'uomo, occorre pensare il fatto che questa ciclicità,
che questo elemento, che questa strutturazione biologica, questo eccesso - visto
dalla parte dell'uomo, ovviamente -, questo eccesso di biologia, questo eccesso
di vita, questo eccesso di progetto unicamente volto al fatto di conservare
una specie o di propagarla nello spazio, o alla riproduzione in generale, che
tutto questo venga meno, cioè dia spazio perché lo spazio si faccia
vuoto e in esso poi avvenga qualche cos'altro. E' come se la struttura biologica
avesse dovuto accettare di cedere di sé in parte questa sua ciclicità,
questa sua tendenza a riprodursi a tutti i costi, a propagarsi, come se la vita
avesse dovuto cedere di sé dei pezzi al morire, come se la vita avesse
dovuto in un certo senso accettare al suo interno, senza scomparire ma rimanendo
in sé, che entrasse in sé un qualche cosa che moriva di sé,
che morendo di sé scavava un anfratto, una caverna, una passività,
un ente vuoto entro il quale poi questo vuoto si è trasformato: è
stato quello che noi vediamo essere il pensiero, che è ente vuoto, l'attività
consapevole è ente vuoto. Questo modello mi sembra abbastanza elementare
da comprendere.
Ora io vorrei fare ulteriori passi avanti all'interno di questo per capire che,
riprendendo un attimo il discorso precedente, come la vita biologica dell'animale
o del vegetale ha dovuto cedere di sé, delle parti di sé, ha dovuto
quindi accettare di morire di sé, di perdere di sé perché
altro più vuoto si facesse - il pensiero, l'affetto, la capacità
emotiva, la capacità elaborativa umana -, così la condizione umana,
che ancora è fatta di questi elementi in eccesso - perché come
abbiamo visto si porta appresso tutta la condizione animale o gran parte di
questa condizione animale, avendo scavato al suo interno in un piccolo luogo
la sua capacità pensante, la sua capacità affettiva più
astratta -, la stessa struttura umana dovrà accettare di morire di un
pezzo perché questo elemento che si è evoluto possa prendere uno
spazio maggiore, possa produrre un'evoluzione maggiore. Cioè l'uomo,
la specie umana deve fare quello che la specie animale, la specie vegetale,
la specie biologica in generale ha già fatto, cioè deve morire
di un pezzo di sé, deve perdere un pezzo di sé, deve far sì
che uno spazio ulteriore di sé si faccia, perché ulteriore livello
del pensiero, che è questa nuova capacità astratta che è
nata al mondo, possa essere compiuto, possa generarsi. E anche questo modello,
a mano a mano che io ci sto lavorando insieme, mi sembra elementare, mi sembra
chiarissimo. Parlo di modelli perché è il nostro modo di pensare:
il nostro modo di pensare va per modelli, il nostro modo di pensare scientifico
costruisce dei modelli, li applica alla realtà, vede poi se sperimentalmente
funzionano, se logicamente hanno una coerenza e così via.
Qui*
ho lasciato questo disegno, il disegno che avevo fatto l'altra volta, anzi,
questi disegni si fanno, cioè io non mi accorgo di disegnare, io scrivo
una serie di cose che mi servono come punto d'appoggio per produrre questa relazione,
per produrre questi modelli di cui sto parlando o questi nuovi campi: da una
parte parlo del modello, da una parte con il linguaggio produco questo modello,
strutturo un campo logico in cui c'è questo modello, nello stesso tempo
però la mia parola, la mia relazione fra le parole, la mia relazione
tra me e le parole, la mia relazione tra me, le parole e voi producono un campo
che è questo stesso campo di cui io sto parlando, cioè il campo
più vuoto in cui è già successa la morte dell'animale,
è già successa la morte di un pezzo dell'uomo; un pezzo della
specie dell'uomo è già morta per produrre questo campo di cui
io sto parlando.
Ora io ho lasciato questo [disegno], ed è una cosa abbastanza particolare
perché di solito io non riesco a ritornare sopra le cose che ho già
fatto - le cose che ho già fatto si cancellano, spariscono, e viene altro
-, perché mi è sembrato una cosa interessante da farvi osservare,
nel senso che questo è un disegno che ha una struttura che mi sembra
concreta, compiuta; cioè ci sono una serie di parole scritte - 'nulla',
'astratto' -, c'è questo disegno, poi questo'altro; questo disegno mi
sembra che l'altra volta rappresentasse l'escavazione all'interno del processo
della morte, quest'altro anche, questo qui ha un elemento che si collega al
morire; e l'insieme è compiuto, è un insieme unitario, è
un insieme compiuto, è un insieme anche affettivo, tanto che l'ho adoperato:
ho fotografato questo disegno, l'ho montato all'interno di un altro disegno
che ho fatto, al suo interno ho posto una finestra che è questo tipo
di disegno, e tutto questo mi serve per rappresentare una copertina di un compact
disc che sto facendo sulla Musica dell'Assenza.
Lasciavo il disegno perché mi sembra abbastanza specifico per raccontare
quello che sto raccontando, quello a cui sto arrivando, cioè per parlare
della lingua di cui io sto parlando, del linguaggio di cui sto parlando; sto
facendo stasera anche un lavoro, si dice, di metalinguaggio, cioè sto
cercando di parlare della lingua di cui sto parlando, con cui sto parlando.
Ora questo mi sembra un disegno interessante da tale punto di vista perché
qui comunque è scritta una lingua: qui c'è scritto 'morte', credo,
qui c'è scritto 'nulla', qui c'è scritto... ci sono scritte una
serie di parole che in un certo senso faccio fatica io stesso a riconoscere
nella scrittura; c'è questo disegno che significa un'escavazione, quest'altro
disegno che significa un altro tipo di escavazione, di vuoto, di formazione,
e tutto forma una certa unità. Questa poi mi sembra un'unità speciale
perché tra questi tipi di parole, tra questi vari tipi di segni - alcuni
ormai indecifrabili - fra tutte queste varie funzioni c'è comunque una
relazione, sia di significato, sia di tipo segnico; cioè c'è una
relazione tra quello che sono queste parole 'morire'... ma anche se uno non
leggesse 'morire' questa parola*
ha una relazione con questo nulla, ha una relazione con questo elemento al suo
interno; cioè a mano a mano che io faccio la lezione si formano delle
relazioni, si forma un campo di relazioni astratte: mi sembra che i due disegni
fatti in tal modo, che si approfondiscono l'uno in questo modo, l'altro in quest'
altro tipo di modo entrino in questo tipo, chiamiamolo, di campo discorsivo
in cui i segni sono completamente diversi - hanno delle frecce - ma non disturbano
pur essendo, dal punto di vista compositivo, dal punto di vista concettuale,
completamente diversi, perché sono comunque delle immagini, anche se
sono immagini astratte, mentre questi altri sono segni, sono convenzioni che
rimandano a certe parole, a certi concetti, ma ormai questi concetti quasi si
estinguono, quasi scompaiono; però all'interno di tutto ciò c'è
una relazione fra le varie componenti per cui questo [disegno] esiste, esiste
nella sua composizione generale. Ciò, io dico, ha prodotto una lingua,
cioè questo è un esempio, diciamo, di un pezzo del discorso, di
un campo linguistico di cui ho parlato l'altra volta e siccome ogni lezione
è comunque un campo intero, questo rappresenta un campo intero. In ogni
lezione io parlo un linguaggio diverso, parlo un campo intero diverso, parlo
di un campo specifico ma intero, relazionato con tutti gli altri campi esistenti
e non esistenti dell'assenza. Questo è un campo dell'assenza che ha questo
tipo di relazioni e si completa ed è completo nelle sue relazioni, nelle
sue interconnessioni, anche nelle sue, chiamiamole, assenze, vuoti di relazione
fra un elemento e l'altro.
Ciò mi serve anche per spiegare in altro modo come la struttura di questi
saggi possa essere fatta, come il campo linguistico di questi saggi si stia
formando, si sia formato, e come lo stiamo studiando e nello stesso tempo come
la struttura linguistica dei pezzi musicali che io compongo formi ogni volta
un campo - come avete ascoltato nei Raddoppi oppure nei singoli pezzi -, un
campo ogni volta completamente diverso da un altro e abbia, produca al suo interno
una serie di interrelazioni che sono tra gli intervalli e le note, tra gli intervalli
del tempo, tra un ritmo e l'altro ritmo, tra ciò che è espresso
timbricamente oppure quello che è trattenuto timbricamente, quello che
si manifesta e quello che non si manifesta, quello che è assente e quello
che invece si pone a livello della coscienza più ordinaria e che l'individuo
è in grado attraverso la sua sensorietà normale di ricevere. Sto
accelerando un po' troppo perché ho paura mi scappino tutti questi processi
che sono larghissimi.
Anche questo è un campo che, diciamo così, è morto un poco,
cioè ha comunque parlato su un livello dove c'è stata questa escavazione,
cioè dove la vita ha ceduto pezzi di sé morendo un poco, ma non
lasciando una traccia di morte: ogni volta che disegno, ogni volta che pongo
un pezzo di musica, ogni volta che produco un campo, ogni volta che parlo con
voi, ogni volta che pongo questa relazione, si escava un pezzo dell'essere vivo,
diventa un essere morto, che non è morto ma che è più vivo
ancora perché produce pensiero, perché produce un ulteriore vuoto
in quanto la morte lascia perdere la sua traccia.
Vediamo da un altro punto di vista. Se riuscite a far mente locale al modellino
di cui ho parlato precedentemente, si può dire in questo modo: nel momento
stesso che questo [modello] si compone, si struttura - ed ha una struttura complessissima
al suo interno, nel senso che questo segno è leggermente differente da
questo, questa linea è differente da quest'altra, e sono tutti segni
diversi l'uno dall'altro ma si compongono nella loro relazione -, tutto ciò
avviene senza che io abbia l'intenzione che avvenga in questo modo, però
l'intenzione è dentro di me, è prima di me, è oltre me
stesso perché io sto componendo questo campo; cioè io sono in
anticipo sulle cose che sto pensando, sulle cose che sto componendo, sulle cose
tout court, sulle cose della realtà esterna perché si è
scavato il vuoto. Cioè essendo un morto, morto un pezzo di quell'essere
vivo di troppo e quindi essendosi scavato un pezzo, un luogo vuoto, tutta la
realtà che conteneva fino a poc'anzi questi pezzi di morte - o morte
- che sono la proiezione del pensiero, del corpo, della struttura, dell'io fisico
dell'individuo, essendosi sottratta da chi parla, da chi ha questo linguaggio
e dalla realtà che ha il linguaggio di chi la sta parlando, perché
la realtà è una struttura linguistica, in questa struttura linguistica
si è formato un campo tale per cui si è accettato il fatto che
[morisse] la struttura linguistica precedente che aveva un eccesso di vita e
quindi di morte legata alla vita, che aveva un eccesso di vita biologica per
cui la morte era eccessivamente biologica e quindi non sufficientemente astratta,
e la realtà tutta è diventata più astratta, la morte che
è intrinseca alla realtà tutta, cioè alla struttura biologica
in quanto tale e che quindi tende per un lato a morire, ha superato un pezzo
della morte, ha astratto un pezzo della morte e quindi essa stessa, la realtà
tutta è meno morta.
Ora questo potrebbe sembrare un modello carino della realtà, [potrebbe
sembrare che] stiamo discutendo, facendo una sintesi filosofica o logica, invece
questa qui è un'esperienza, un'esperienza di tutti i giorni, quotidiana
che io ho, ancora più profonda, ancora, diciamo, più morta nel
campo dell'astrazione, ancora la vita ha ceduto molto di più di quello
che vi sto dicendo, però ci arriveremo per gradi.
Vi dicevo della struttura linguistica e perciò, in un certo senso, ritornando
al discorso che stavamo facendo, tutto il problema è come dire, come
poter scrivere, come poter fare esistere, come poter parlare, come poter far
stare al mondo un alcunché che ha in sé il fatto che ha accettato
di morire, ha accettato di non essere; in fin dei conti quello di cui stiamo
parlando da anni, da due o tre anni, è il non essere; il non essere equivale
alla morte: ciò che è, è un ente vivo, ciò che non
è, è un ente che è scomparso, non ha neppure esistenza;
il non essere, si dice, non ha esistenza al mondo perché il non essere
è associato alla morte, al morire.
Allora da questo punto di vista potete capire più facilmente che cosa
sia questo nulla di cui io continuo a parlare: questo nulla è questa
escavazione, diciamo in termini più concreti, è questo morire
concreto della vita, la quale vita morendo è capace di astrarre, quindi
diventa più astratta, e cioè si forma un campo di astrazione maggiore.
Questo nulla di solito è associato alla morte e quindi al non essere
e quindi a un campo che è molto chiuso, molto denso. Io dico: la morte
che noi ci siamo immaginati fino adesso è una morte autistica; come la
vita in generale, io dico, la vita degli umani fino adesso è autistica.
La definizione generale di autismo dice che l'autismo è quella forma,
è quella espressione della malattia mentale per cui l'individuo - in
seguito a traumi, in seguito a disturbi molto grossi, a disturbi di tipo ideatorio,
psicologico - a poco a poco si ritira dentro di sé, lascia le strutture
esterne, il mondo circostante, lascia ogni tipo di relazione, si chiude in sé,
una volta chiuso in sé a poco a poco abbandona la coscienza di sé,
abbandona sé soggetto, per cui il soggetto che lui era, che produceva
questo ritirarsi in sé, diventa a poco a poco un oggetto; cioè
l'individuo autistico è l'individuo che a poco a poco ha provocato, diciamo
così, in sé la morte di sé diventando un oggetto, diventando
una cosa, diventando la cosità; l'individuo non ha più un io,
l'individuo non è più nulla, è diventato questo nulla assoluto,
è diventato questa specie di cosa concreta, questo oggetto.
Ora io sono abituato a usare questo termine 'autistico', 'autismo' in generale;
è un termine che mi sta bene per tante forme di procedimenti mentali,
di chiusure mentali degli individui o della realtà tutta, ma anche della
realtà che diciamo normale, ordinaria, rispetto al campo di osservazione
da cui sto osservando, che è il campo vuoto, cioè capace di relazione
vuota, capace di relazione assente che non può fare a meno della relazione.
Autismo è invece quel caso in cui l'individuo o, allarghiamo la cosa,
la specie, ha mollato le sue relazioni, si è ritirata, ha chiuso, non
ha più rapporti, è diventata una cosa, è diventata un oggetto:
io dico in generale che la realtà è un oggetto, la realtà
è fatta di cose, il pensiero umano continua a concretizzare questa cosa,
ha nella mente l'immagine, ha nella mente le parole, ha nella mente una lingua,
parla, pensa soltanto attraverso le parole, pensa attraverso l'immagine, pensa
attraverso le cose. Perciò l'individuo normale umano nella fase attuale
della specie è autistico secondo la definizione che sto dando, è
autistico non nella patologia generale, però, dal punto di vista dell'osservazione
dove io sono posto, in cui il vuoto è molto più grande, in cui
la cosa non è cosa, è vuota, io osservo questo mondo e dico: questo
mondo è autistico.
Ed è ancora più autistica la relazione che questo mondo, che ognuno
di voi ha con la morte, cioè la morte è quel campo in cui l'individuo
a poco a poco cede le sue parti di vita, come avevamo visto prima l'individuo
perdeva le sue tracce di vita, le sue tracce psicologiche, diventava a poco
a poco un oggetto, così l'individuo che muore, la specie che muore, ritira
le proprie tracce di coscienza - cioè non c'è nessun individuo
al mondo che muoia cosciente, non c'è nessun individuo al mondo che abbia
coscienza di ciò che è la morte -, ritira le proprie capacità
di relazione, si ritira in sé stesso. La morte è una chiusura
di sé, totalmente dentro di sé, in un mondo completamente chiuso
in cui si consuma tutto, si esaurisce tutto e l'individuo cede la propria vita
in maniera incosciente, ed è perciò che io dico che la situazione
attuale della morte della specie è molto vicina, è molto simile
al concetto di autismo che si usa in campo psichiatrico: la morte nella specie
umana è questa chiusura, è questa assenza di sé, è
questa perdita di sé.
Circa questo tutte le religioni hanno tentato delle vie di uscita, hanno tentato
di produrre quella fascia intorno alla vita che è il passaggio nell'aldilà,
che è un altro livello della coscienza, che è la presenza della
divinità, che è la presenza di altri campi del sapere, del conoscere,
del vivere, del gioire, del godere, oppure dell'inferno, oppure del buio, oppure
della totalità annichilente; perciò dentro agli uomini c'è
continuamente non tanto il bisogno della vita oltre la morte, ma quanto questa
tendenza comunque umana ad avere consapevolezza di un alcunché di cui
fino adesso non si ha consapevolezza, cioè del fatto che questa morte
deve cedere le sue barriere entro cui si protegge, entro cui muore, entro cui
si mangia l'individuo in modo autistico, la specie in modo autistico. Ed è
una morte concreta nel senso che è una morte animale, cioè non
c'è stata nessuna modificazione dalla morte animale alla morte umana;
c'è stata un'intuizione da parte delle religioni le quali dicono che
se l'individuo nella vita ha fatto del bene, è stato cosciente, è
stato consapevole, non muore del tutto e passa in un' altra regione; sembrerebbe
il passaggio nel campo dell'assenza. Dante per esempio descrive il Paradiso
o il rapporto con la divinità, il suo rapporto linguistico con la divinità,
la sua difficoltà di poter parlare della Trinità, del poter parlare
della luce. Ma quello che io voglio dire è il fatto che tutto quanto
l'uomo si è spinto, cioè la specie umana si è spinta verso
questa regione di cui sto parlando, questa regione che è vuota, che è
altra; io dico che è vuota nel senso che è diversa e, non essendo
quella cosa così cosa, è altro, non è cosa, per cui è
nulla rispetto a quello che è. E circa questo non si può produrre
un' immaginazione, si può produrre soltanto un altro campo di realtà,
un altro campo vuoto ed è quello che sto cercando di fare, ma senza immaginazione,
senza parole o con le parole le quali però possono scomparire, come nella
musica, la musica che io compongo: questa si compone ma nello stesso tempo scompare,
la relazione fra i vari intervalli è talmente vasta, è talmente
complessa che è capace di poter venire meno, non c'è bisogno che
rimanga, che lasci la sua traccia.
Allora ritornando al campo linguistico ne parlo anche perché secondo
me si sta facendo un lavoro molto interessante sulla traduzione di questi testi;
e la stessa traduzione di questi testi con le mie amiche traduttrici, Suzanne
Delorme e Patrizia Brighi, chi in francese, chi in inglese, mi sta spingendo
sempre di più, velocemente, a comprendere il mio linguaggio e a comprendere
come sia possibile produrre questo tipo di linguaggio - che è linguaggio
orale, che è linguaggio musicale, che è linguaggio scritto - che
abbia queste proprietà che sono dell'assenza, cioè che cosa sia,
dentro, questo linguaggio, quali siano le caratteristiche formali, sostanziali,
degli accenti, degli spostamenti, dei soggetti, che cosa sia all'interno di
questo campo che si forma, e che si forma anche stasera, che cosa sia questa
relazione fra le parole, le quali parole imparano a non essere soltanto una
cosa, imparano a essere altro, per cui questo campo del linguaggio si porta
appresso questo campo dell'assenza e io posso permettermi di scrivere, posso
permettermi di parlare, posso permettermi di musicare qualche cosa che ha le
note, ha le parole, ha le immagini, talvolta, ma tutto questo è comunque
anche altro da loro stesse. Cioè, se io scrivo*
o penso la parola 'casa' che tutti quanti sappiamo che cosa significa, questa
nel momento stesso che io la dico e la relaziono tra il mio dire, il mio pensare,
il mio vuoto, il mio essere morto, il mio essere altro o il mio scritto la configuri
insieme con un' altra parola attraverso una relazione, per esempio attraverso
la parola 'eventuale', oppure insieme alla parola 'tatto', 'esperienza', 'astrazione',
'nulla', 'cuore', ecc, in questa relazione so benissimo che ho prodotto una
serie di relazioni le quali hanno una differenza e un'analogia, ma sono relazionate
in quel campo della differenza soprattutto, tali per cui queste relazioni produrranno
un campo linguistico in cui c'è il vuoto, in cui c'è l'assenza.
La cosa però è difficile; se mi è possibile nel campo della
poesia - Europa *
io la compongo in questa relazione raccontando che cos'è un mondo, che
cos'è stata l'Europa, che cos'è stato il processo della storia
- è molto più difficile nel campo del saggio: io la parola staccata
comunque debbo farla significare, cioè il suo valore semantico rimane,
la parola 'casa' è quella che vale per tutti noi, è un concetto,
però nello stesso tempo vedete che io ho fatto questo segno*
, e questo segno è il segno del nulla; questo segno del nulla significa
che in questa parola 'casa' che si pronuncia 'casa', che ha il suono 'casa',
che ha il valore semantico di 'casa', che ha determinate denotazioni o connotazioni
che tutti sappiamo, è venuta meno la sua radice. Cioè in una relazione
complessa per cui io metto questa parola con una serie di altri aggettivi, attraverso
una frase che ha un significato, un valore semantico, un valore di significato
grosso modo di tipo scientifico, di tipo filosofico, di tipo saggistico, contemporaneamente
questa frase, questa parola ha perso la sua radice unica: la sua radice è
morta, e morta non nel senso negativo - non è che vada in giro col lutto,
ma forse la parola 'casa' va in giro col lutto perché non vuole sganciarsi
da questa radice -, ma ho reso questa parola molto più mobile, questo
concetto, questo valore semantico molto più mobile, cioè l'ho
immesso nell'universo, l'ho immesso in un campo dell'assenza, in un campo di
vuoto, per cui la parola 'casa' oltre a quello che sono le sue radici analogiche
per cui è relativa alla famiglia, è relativa al desco famigliare,
relativa al padre, relativa alla madre, relativa alla piccola patria, vuol dire
anche tutt'altro, cioè questa parola 'casa' è anche tutt'altro.
E tutt'altro si configura comunque in una scrittura che diventa tutt'altro;
pur parlando della casa, del desco, del padre, di tutti questi elementi che
noi conosciamo già, dicendoli in quel determinato modo, con quel determinato
accento, con quella determinata configurazione, con quel determinato spazio,
con quel determinato ritmo, con quei determinati avverbi, con quella sospensione,
tutto è quella cosa ma diventa anche la possibilità di essere
tutt'altro e in relazione con tutti gli altri campi esistenti.
E così faccio un' ultima annotazione, passo un attimo al campo della
musica e dico: la musica in generale - e non sto a spiegare perché, non
lo so ancora bene - al mio orecchio che è vuoto, che è assoluto
in questo vuoto, che riconosce un suono vuoto, riconosce i suoni vuoti astratti,
la musica in generale se è composta secondo un linguaggio sufficientemente
positivo - se così posso chiamarlo - e quindi tutta la musica diciamo
dell'occidente, dei grandi pensatori, dei grandi compositori, oppure la musica
sacra, la musica gregoriana, cioè tutto il movimento della musica dell'occidente,
e anche parte della musica dell'oriente, risuona al mio orecchio vuota. Cioè
mentre la musica si svolge in me succede la stessa cosa della 'casa', cioè
io riconosco il timbro, le altezze, gli intervalli, i suoni, le varie cose,
ma contemporaneamente la musica in quel momento muore, cede di sé, tace
e invece di un certo tipo di frase musicale, invece di una certa nota,*
di una certa composizione, mi si forma un altro livello, mi si forma un livello
che è vuoto in cui io ascolto questa musica, la quale musica tace dei
suoi timbri, delle sue altezze e mi comunica e mi produce un ulteriore vuoto,
un ulteriore livello di astrazione nel mio campo vuoto. Cioè la musica
è capace [di tacere] nel suo istante in cui si pone, date le sue relazioni,
data probabilmente la natura stessa del suono, diciamo di un 'mi': il suono
di un 'mi' oltre per me essere un 'mi' è anche l'assenza di questa nota,
è l'assenza di questa 'casa', è tutto altro rispetto a 'mi'; 'mi'
risuona 'mi', ma mi risuona anche vuoto dal 'mi' e mi risuona insieme con tutte
le altre note che hanno la possibilità di relazione con questa nota,
perciò la nota diventa anti-nota, cioè si svuota, diventa anti-linguaggio,
diventa la capacità di relazionarsi con tutti gli altri tipi di linguaggi
o di rapporti musicali, al di sotto della sua configurazione di quel valore
soltanto notazionale, semantico che abbiamo fissato relativamente a quel tipo
di suono. Perciò quel suono è insieme con tutti gli armonici di
quel suono ma gli armonici di quel suono sono comunque vuoti, cioè sono
insieme con tutte le possibilità, potenzialità degli armonici
esistenti, vuoti, perché si svolgono qua; cioè gli armonici che
si sviluppano, che sono una vibrazione, che sono comunque un elemento timbrico,
che sono un elemento di vibrazione del suono, che sono le onde di quella struttura
musicale, che sono comunque un elemento vibratorio, vengono meno, cioè
muoiono di quell'elemento vibratorio, tacciono e mi si configurano secondo un'altra
loro sostanzialità che è sostanzialità vuota.
Adesso sento la stanchezza, adesso cerco di finire.
Allora per finire io dico che la musica per le sue relazioni, per la sua capacità
timbrica e dinamica, per il fatto che è interpretata ogni giorno, che
si mostra ogni giorno, io la colgo su questo altro tipo di piano - e probabilmente
insieme i due piani cioè sia il 'mi' sia il piano di fondo. Io ho voluto
comporre appunto un'altra musica, la quale altra musica fosse come questa 'casa'
ma in un certo senso ancora più astratta, cioè produrre una serie
di intervalli che fossero degli intervalli nuovi, completamente nuovi, ogni
volta capaci di rinnovarsi perché vuoti di sé stessi, vuoti del
loro soggetto, vuoti della loro notazione, vuoti della relazione di solito concreta
- tra un do-fa c'è un certo tipo di relazione, di armonici -; mentre
io immediatamente nell'annotazione, nella struttura musicale ho adoperato delle
relazioni le quali già risuonano nel campo vuoto; cioè non c'è
bisogno di fare il passaggio diciamo dal linguaggio mozartiano, dal linguaggio
raveliano a sentire questo elemento, vivere questo elemento che è vuoto
sottostante, ma la musica che io compongo, come i saggi che sto facendo, come
la pittura che faccio, come questa lavagna che sto scrivendo, si compongono,
in particolar modo la musica ripeto, in una struttura linguistica la quale già
parla la sua lingua assente, cioè è già al suo iniziarsi
vuota. Perciò chi si mette in ascolto, chi è giusto nel suo ascoltare
quest'altro tipo di livello già immediatamente entra con questo livello;
non c'è bisogno di fare il passaggio dalla musica normale e riuscire
a sentire scavare quell'altro elemento che, per il tipo, per il genere di realtà
che ha il suono, può emettere, può vibrare in assenza. Quello
che io compongo, quello di cui io parlo è già in assenza per cui
chi ascolta può già porsi da quella parte lì e quindi in
quel momento essere comunque un po' meno di quella vita in eccesso e venire
un po' meno di quella vita in eccesso, già avere un luogo scavato, già
poter seguire un linguaggio che è quello del futuro della specie umana
la quale sta in tutti i modi cercando di arrivare a questo luogo in cui, invece
di parlare la cosa concreta, invece di parlare la morte concreta, la morte si
sottrae, la vita si sottrae rimanendo cosciente, producendo un vuoto cosciente
e attivo.
Fermo un attimo tutta questa fase. Adesso se voi non siete stanchi, oppure per
levare questa stanchezza - siccome Carlo oggi è andato a fare un concorso-
esame a Torino, che poi ci dirà come è andato, in cui ha suonato
un concerto di Ravel -, ho proposto a Carlo che stasera era un po' stanco per
suonare anche la musica dell'assenza venendo dall'altro tipo di musica, anche
se i due s'incontrano sul piano dell'assenza, di suonare un pezzo, il Secondo
Tempo [del concerto] di Ravel.
Carlo Balzaretti: Avevo intenzione, visto che parliamo di un livello
così profondo della musica, così delicato, così particolare
di suonare questo Secondo tempo, questo lungo monologo iniziale affidato soltanto
al pianoforte. Localizziamo bene la situazione: il secondo tempo in un concerto
per pianoforte e orchestra in tre tempi è il momento più lirico,
un momento particolare, il più intimo del compositore, e all'interno
di una composizione come questo Concerto in sol, composizione
molto vivace, in cui ci sono continui scambi tra orchestra e pianoforte, un
ritmo continuo, serrato, c'è questo Secondo Tempo che è composto
in modo molto particolare, perché è una specie di melodia infinita
che passa dal pianoforte, che sarà la parte che vi farò sentire,
che presenta questo tema molto particolare, un po' modale, che tenta in qualche
modo comunque di allontanarsi dalla normale tonalità e che passa man
mano poi tutti gli strumenti dell'orchestra. Sarebbe bello aver qua l'orchestra
e far tutto il Secondo Tempo, però penso che già l'ascolto di
questa parte del pianoforte possa forse darvi l'idea di questa composizione;
è sicuramente uno sforzo ulteriore di Ravel di andare ancora più
lontano. Io penso che sia carino, strano; ve lo faccio sentire volentieri. E'
una paginetta e mezza la parte che vale la pena presentare; è naturalmente
un 'Adagio assai': un Tempo molto lento, parte solo affidata al pianoforte,
quindi in questa parte non c'è orchestra. Parte così il Secondo
Tempo.
Carlo Balzaretti: Era bellissima l'introduzione. Mi piacerebbe sapere
cosa ne pensa Paolo riguardo a questa pagina che sicuramente conosceva.
Paolo Ferrari: Mah, adesso, se riesco ancora vorrei fare al pianoforte
un pezzetto per mettere in confronto questo pezzo con la musica dell'assenza,
per vedere gli intervalli; non un confronto diretto ma, diciamo, [per vedere]
come i due mondi sono in relazione e come sono differenti. A me piace. Ravel
in effetti si porta dietro tutto il romanticismo ma tenta di aprirsi una porta
senza dover fare tanto casino; io la trovo una pagina sufficientemente profonda
perché abbandona il suo modo onirico di pensare, cioè i suoni
si svolgono in un certo senso come sollevati dal terreno. Di solito Ravel tende
ad andare verso quello che è il campo del sogno, della timbrica, anche
dell'arabesco, della tessitura molto sottile, molto intelligente anche del suono;
invece questo è come se fosse lasciato tranquillo ed è tranquillo
ma è molto intelligente al suo interno ed è più intelligente
di tante altre parti che con grande casino, con grande dispendio di mezzi -
diciamo anche in questa orchestra - tende a fare. Invece così è
come se ci fosse una sintesi, e senza eccedere in questa sua tendenza, che io
non amo poi moltissimo, all'elemento diciamo del sogno, onirico, diciamo del
sogno; noi abbiamo detto che un certo tipo di musica ricorda il sogno, ma è
dove Ravel è un po' autistico secondo me, dove tende a chiudere continuamente
i mondi: ne chiude uno qua, ne chiude uno qua, quasi fosse geloso, non volesse
cedere qualcosa agli altri, a chi sta ascoltando e quindi si chiude continuamente
dentro sé stesso. Invece in questo [pezzo] dice: "Qualche cosina vi dò,
vi lascio, lascio trasparire di me, della mia anima".
Carlo Balzartetti: Sì, è infatti una pagina singolare all'interno
della produzione di Ravel, è l'unica, perché di solito si mette
a fare il neoclassico tra virgolette, e allora magari diventa anche lirico,
un po' intimista, però è neoclassico; qui c'è qualche cosa
di diverso, una pagina interessante, in cui fa anche l'uso dell'armonia...
Paolo Ferrari: Sì, sì, ma poi a un certo punto ho sentito
che c'era un pezzettino che andava di là, in due punti dove ci sono probabilmente
dei fattori di rapporti armonici particolari tende ad andare di là, cioè
riesce a passare una barriera, riesce a slanciarsi e a rimanere su una soglia
diversa dal solito suo, formalmente neoclassico.
Carlo Balzaretti: Sì,
si può definire neoclassico,
cubista, non si può però definire impressionista, secondo me;
forse Gaspard de la nuit può rientrare un po' in quel concetto;
non è un autore impressionista.
Paolo Ferrari: No, no perché non è coloristico, non ha
i colori, non ha l'impressione, ha comunque delle frasi per cui è già
più complesso dell'elemento impressionistico che invece è molto
frammentato nel campo musicologico.
Carlo Balzaretti: Forse La valse potrebbe entrare nel concetto
di impressionismo, stavo pensando; in fondo salta fuori forse più formalismo,
e allora si collega ai Sei.
Paolo Ferrari: Adesso io provo a fare un piccolo pezzo. Ovviamente è
molto diverso, ovviamente l'orecchio comune tende di più a seguire questo
elemento dolce, onirico, un po' anche romantico, anche se portato verso un altro
campo rispetto a quello che...
[Paolo Ferrari esegue un pezzo al pianoforte . Durata 2'30", circa]
Paolo Ferrari: Che ne dici?
Carlo Balzaretti: E' molto bello, difficile, proprio è un pezzo
tutto diverso.
Paolo Ferrari: Io volevo entrare nella relazione col pezzo che avevi
fatto tu, in assenza però, cioè non in una relazione, come dico,
per analogia, non in una relazione concreta ma scavando quel pezzo precedente,
portandolo su un altro livello anche se non era nella simultaneità. Comunque
mi ero posto come di fianco raccontando un'altra storia che lo comprendesse,
che lo facesse amare di più in un certo senso, che lo facesse esprimere,
produrre un affetto meno formale forse, con un linguaggio anche più complesso;
ma è come se io mi fossi portato dove sentivo che tu suonavi, dove Ravel
era arrivato sulla soglia, oltre questa soglia, cioè mi sono posto immediatamente
successivamente a questa soglia. Quello che è interessante di tutto questo
mondo che sto costruendo, di cui sto parlando, è che è come se
fosse già nella soglia successiva mentre tutti gli uomini hanno lottato
tutta la vita, tutto il mondo fin dall'origine [ha lottato] per essere dall'altra
parte della soglia - hanno costruito il Paradiso, hanno costruito l'interiorizzazione,
hanno costruito la letteratura, la filosofia, la musica -, per passare dall'altra
parte, e io sto ponendo questa altra parte immediatamente; se uno l'ascolta
giustamente, nel momento stesso in cui ascolta è nel suo futuro, nel
suo tempo futuro, probabilmente anche simultaneo, è già nel luogo
nuovo, è già l'essere astratto, è già lui essere
astratto.
Ci fermiamo qui. Ci vediamo il 14 aprile.
Arrivederci a tutti.