“Se è
pur vero che quell’uomo, per le caratteristiche a lui intrinseche
e per l’esser transitato già da alcune tappe singolari
in vita, a buon punto ora si trovava per affrontare quel passaggio cruciale
che porta alla mutazione – in esso sta l’asserzione da parte
del mutante d’una condizione e d’un gesto tanto sovversivi
e definitivi da osare egli rinunciare nella quasi totalità alla
spinta inesorabile della vita con l’intero suo afflato e affanno,
così come s’attua nell’attraversamento talvolta lineare,
talvolta caotico, senza alcun punto di repere durante le Transizioni
quando essa vita cede il proprio terreno alla morte, non diversamente
da come è descritto nel Libro Tibetano dei Morti – una
descrizione che in molti suoi tratti è precisamente ciò
che da lui e in lui fu vissuto in quei terribili e straordinari momenti
– mi sembra sia da mettere sotto osservazione con una certa dose
d’interesse pari a una non certamente appiccicaticcia curiosità
la qualità dei pensieri, dei sentimenti che attraversarono la
testa e il corpo d’un tale essere vivente e pensante, prima e
durante quel fatale evento: si stava accingendo a decostruire una certa
condizione di morte ostile e a mutarne le corde d’una costituzione
aberrante accordandosi al suo battito sordo, in luoghi in cui nessun
altro essere umano aveva osato penetrare, per quanto ne sappiamo. (…)”.
(P. F., Buon infinito, p. 84, 2000-2005)
Il vicino di casa
Non c’era nulla, proprio nulla che potesse per lei giustificare
perciò acquietare quel senso di colpa che l’aveva resa
totalmente impotente ad essere e ad agire. Un unico spiraglio restava
in quel modo drammatico totalmente preso da un senso di disfatta e di
negatività. S’era coperta il capo con un cappuccio di stoffa
a righe grigie su fondo bianco. S’era messa un paio d’occhiali
dalla montatura semplice e liscia. Aveva ascoltato le voci che le avevano
detto di tornare indietro, quando aveva respirato un’aria di montagna
più fine di quella che era costretta a respirare ora in presenza
delle cose di tutti i giorni. Aveva appoggiato gli occhiali sul tavolo
al quale era abituata a sedersi per fare i lavoretti quotidiani. Aveva
respirato profondamente con gli occhi socchiusi. Aveva tolto il cappuccio.
Aveva pensato che poteva farne a meno e che non doveva nascondersi in
quel mondo così assurdo e fuori dalle regole del buon vivere
sociale. S’era ricordata d’una domenica mattina in cui pioveva
a dirotto e lei era uscita a bagnarsi di pioggia senza una ragione precisa.
Per un attimo s’era approssimata a quel momento così banale
e così inusuale, ma significativo in quel suo recondito moto
dell’anima, che le voci – che ininterrottamente ne avevano
occupato il capo e tutto l’essere fin quasi alle ginocchia, lasciando
liberi soltanto i piedi - erano cessate per un istante. Si era ritrovata
così i piedi bagnati; pensò di riflesso una seconda volta
a quel giorno in cui era scesa ed aveva sostato sul marciapiedi di fronte
alla sua casa a pensare chissà a che cosa, probabilmente a un
mosaico antico bizantino dai colori lucenti che aveva visto da bambina
molto piccola, prima che fosse così importante respirare quell’aria
fine della montagna, come le avevano detto. E s’era sentita in
pace. Senza colpa, senza niente di cui vergognarsi: era una meraviglia,
il giorno splendeva, gli uccelli cantavano, le voci tacevano, la vita
scorreva, la terra aveva smesso di fare baccano a causa di quel tremolio
incessante che l’attraversava a cui suo malgrado lei s’era
dovuta abituare. Uscì dalla porta di casa; un vicino la vide
così mutata, senza nulla di strano per la testa; la salutò
con piacere e lei ricambiò senza avvertire problemi di sorta,
soprattutto in prossimità dei piedi capaci ora di sollevarsi
da terra quanto occorre in un buon camminare.
(P. F.)