Un teatro in cui la parola è posta in una precisa
collocazione. Così come la musica.
Un dire qualcosa che subito è posto a non far emergere niente.
Ma che implica per chi dice – l’attore – ad essere
sé nel mezzo della finzione.
E così a collocarsi nel mezzo d’un universo, pronto a cessare.
A nascere e morire nell’istante. E in ciò essere luogo
affettivo e del giusto mancare-affettivo e affettivo-mancare.
Luogo della a-rappresentazione: dove la cosa perde il suo peso. E la
sua prensilità d’antica specie. Si perde l’animale,
ma non torna uguale l’umano. Si perde l’umano e non torna
l’animale. Il reale è cessato; il reale è mancato.
Chi vive e chi muore? L’attesa esplora il suo parlare e dice l’essere
uomo – e non; la musica segue e si dispone a raccogliere e a raddoppiare
(niente più niente). Infine una storia, un’inserzione che
non si ripete (non-ripete).
(P. F. Aforismi teatro, 2003)