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Paolo Ferrari: Allora, stasera continueremo il racconto della volta precedente incentrandolo a mano a mano, se è possibile - anche con i miei interlucutori, con Susanna e Luciano -, relativamente al gesto, a questo gesto particolare che è un gesto del pensare, che è un gesto che trasforma ma trasforma in niente e trasforma niente, che produce spazio e in un certo senso toglie lo spazio introducendo un alcunché d’altro. E' il gesto in-Assenza, il quale gesto in-Assenza sottrae alla morte, al morire, che non ha ancora appreso a cessare, la sua incresciosa disorganizzazione, disgregazione che ancora nella specie Homo sapiens esiste, essendosi portata appresso questa entità disorganizzativa dal mondo animale, e in generale dalla materia. La materia pensante si è portata appresso questo elemento di una disorganizzazione alterante e alienata che è questo fattore di morte. Io dico fattore, ma non è esatto fattore: è un'entità, è una cosità. Il gesto di cui parliamo tende a togliere questa cosità alla concretezza dei corpi-menti di Homo sapiens. Allora il gesto del pensare in-Assenza, la morte che muore, il nulla che genera e, in quanto nulla, non genera nulla, ovvero genera un nulla di nuova specie che è questa alterità, è questa organizzazione-disorganizzazione - vedremo poi per quale ragione questa duplicità del termine - che ancora una volta è questa capacità di essere nulla e nullificante, ovvero non dover produrre necessariamente nulla, non dover essere necessariamente una cosa, non dover essere, tout court, un alcunché di esistente.

Come le ultime volte apriremo il Seminario con una sorta di Raddoppio fatto dal nostro carissimo amico percussionista Ugo e da me, al pianoforte. La base da cui partiremo - la chiamo base ma è una linea uno, è una linea già sufficientemente compiuta che si porta appresso, che cerca d'includere questo Raddoppio -, è una base, in questo caso, abbastanza particolare perché ha al suo interno due elementi melodici insieme a tutti gli elementi di organizzazione acrobatica o disorganizzazione a-temporale, in un tempo nuovo che è quello della mia musica, e questi due punti di aggregazione interni partono da una canzone ebraica che si intreccia con un canto arabo. Simbolicamente già si capisce il significato di questi fattori di contaminazione che vorrebbero portare a questo gesto di nulla, che è un gesto di nulla che si porta con sé questo ulteriore elemento che potrebbe essere un elemento della pace, un elemento della quiete, un fattore affettivo capace di una costanza, capace - quello che noi diciamo in generale - di un incavo, capace, essendo catalizzatore, di essere luogo della trasformazione continua degli elementi cosanti che la realtà, tuttora, in quanto realtà descrittiva di Homo sapiens, si porta appresso.

Vorrei incominciare a raccontare, prima dell'inizio del Raddoppio con Ugo, il racconto della partita a scacchi della morte. Tutto il Seminario passerà come al solito attraverso Susanna, attraverso Luciano, eventualmente attraverso Nicolò che leggerà qualche aforisma intorno a questo atto-gesto, e si concluderà con Lisetta che suonerà con me due brani da me scritti, uno intorno a Scriabin, l’altro intorno a Schönberg, e che sono due brani i quali, invece di questo iniziale elemento anche sentimentale - sentimentale ovviamente sufficientemente astratto - di questa musica che presenteremo subito all'inizio, sono più astratti, sono più posti in una distanza, ma altrettanto appartengono a questo sistema catalizzante capace continuamente di produrre questo gesto che da una parte è dissipativo e dall'altra parte è organizzativo su un altro piano più complesso.

La partita a scacchi

"Avevano iniziato una partita a scacchi mortale: i giocatori erano lui, il protagonista, e l'altro, la sua morte. Chi avesse vinto, avrebbe comunque esperito la perdita totale e definitiva: infatti, se avesse vinto il protagonista, la morte sarebbe stata sconfitta e lui, privato per sempre della morte, avrebbe smarrito il senno - non v'è uomo per il quale la morte non segni il calco di lui e il limite, che sono la premessa perché abbia origine l’attività del pensiero. Non esiste cogito senza che al suo estremo sia segnato il confine - il suo cessare -, che è forma e definizione del gesto del pensare.

Se avesse vinto la morte, il protagonista sarebbe morto e senza protagonista quel mondo da lui determinato sarebbe finito, privo di quell'entità capace di mettere in moto - e in gioco - la morte, idonea a sua volta d'inventare una siffatta partita a scacchi dal significato e dalla finalità inclini alla nientità - al gesto fatto di nulla - che è specchio del suo morire (il morire della morte)".

Come si vede, questo Seminario è improntato su questo gioco del morire, e del morire del morire, ed è improntato anche a un parallelo con questo libro* - uscito molto di recente - di Jean Claude Ameisen - grande ricercatore francese, biologo - che è il massimo esperto dello studio del suicidio cellulare, di quel sistema - che avevamo già visto l'anno scorso - dell'apoptosi cellulare, cioè delle cellule che sono capaci di venire meno, di suicidarsi per poter dare luogo ai sistemi complessi, ovvero ogni cellula ha dentro di sé un meccanismo tale per cui questa cellula è pronta al suicidio, ovvero - come dice Ameisen - le cellule tenderebbero di per sé stesse immediatamente a suicidarsi, e cioè a cercare questa morte precoce, ma invece sono determinate nel loro equilibrio transitorio, assolutamente transitorio, da tutta la popolazione cellulare che manda dei segnali perché le cellule attendano la loro morte e cioè non cadano dentro la loro morte precoce.

Questo è un libro scientifico - l'autore è un biologo -, ha una serie di spunti estremamente interessanti tra i quali uno iniziale - che è nel sottotitolo: Il suicidio cellulare e la morte creatrice -, il concetto di morte creatrice che è uno dei concetti che noi avevamo sviluppato l'anno scorso, anno in cui abbiamo continuamente esplorato il fatto del cessare, del venir meno, dell'estinzione come elemento che è capace di costruire l'attività pensante. In questo racconto continua questa presenza di questa morte, la quale tuttavia non è capace di cessare del tutto ma che comunque è capace di determinare un limite, e questo limite è il fondamento perché l'attività pensante di Homo sapiens si determini.

Il morire della morte sarebbe la via, la mediazione tale per cui l'attività superiore, cioè questa attività in Homo Abstractus, questa attività altra, questa attività creatrice, in continuazione possa autodeterminarsi, autorganizzarsi.

Ugo, suoniamo.

[Paolo Ferrari al pianoforte e Ugo Brancato alle percussioni eseguono il Raddoppio del pezzo presentato all'inizio del Seminario. Durata 6']

Paolo Ferrari: Quello che osservo che sta avvenendo in modo interessante in questi ultimi tempi è il fatto che... All'inizio di questi Seminari - otto anni fa, nove anni fa, ricordo - mi trovavo veramente solo a dover accennare, a dover portare avanti, poi a sviluppare, questo particolare a-luogo, questa speficità di questo sostrato dell'Assenza, in questa solitudine, ma non da un punto di vista della presenza umana, dei collaboratori, ma in quello che è la ricerca in campo scientifico, in campo filosofico, nel mondo. Quello che sta succedendo attualmente è il fatto che tutto quello che noi abbiamo attraversato, i sistemi che abbiamo costruito, questi a-sistemi, queste voci che hanno appreso a cessare, queste soglie che sono state poste e ogni volta superate, ogni volta attraversate e poi riproposte, questa oscillazione - vi ricordate quando parlavamo dell'oscillazione dei pezzi di musica, di tutta l'introduzione a In divenire ulteriore o del balletto in cui c'è costantemente questa idea dell'oscillazione, quindi dell'attraversamento di una soglia, del venir meno di una soglia, dell'affacciarsi oltre e tornare indietro e ritrovare questo baratro insanabile, questi sistemi o queste organizzazioni capaci di una loro autoreferenzialità, cioè del costruirsi in continuazione da soli al loro interno -, questa voce era veramente in certi momenti angosciosamente solitaria; anche questa in una dimensione di un nulla in cui nessun'altra voce era capace di questo fattore che noi abbiamo chiamato Assenza.

Ora, come [si può vedere] da questo libro e da altri libri che stanno uscendo, è come se si affacciassero tutti i campi della ricerca, stessero affacciandosi e ponessero in essere questo luogo particolare, questo luogo in cui tutti i sistemi che fino adesso sono stati pensati vengono visti come troppo semplici - come già nell'ambito della natura, della natura biologica, nel processo dell'evoluzione, dell'evoluzione biologica; non parliamo poi del passaggio dal vivente al vivente pensante -; tutto quello che è stato pensato è troppo semplice, ci devono essere degli altri fattori in gioco. Uno dei fattori in gioco fondamentali che pone Ameisen - spero di pronunciarlo giusto, non ne so la pronuncia esatta - è il fatto di questa presenza, di questa cessazione nell'organizzazione biologica già al suo originare, nella cellula.

Questa cessazione [è] già in questo originare, nella cellula - ma non soltanto nella cellula evoluta, cioè nella cellula dei sistemi complessi, cioè i sistemi biologici nostri, quelli degli animali, dei mammiferi, ma anche quelli dell'uomo -: c'è all'interno della cellula il suo meccanismo ovvero il suo processo complesso relazionale che le darebbe - quello che dicevo poc'anzi - la morte precoce, e cioè la sua cessazione. Allora tutti i sistemi si portano dentro questo elemento della cessazione.

Ora, non solo questo, ma mi riferivo a un passo, sempre di questo libro, che dice: "Se dobbiamo riconsiderare il modo di cogliere il divenire delle nostre cellule, converrà probabilmente abbandonare in primo luogo l'idea di un percorso univoco, lineare, verso la vita e la morte. Dovremmo forse incominciare a pensare in termini di interazioni dinamiche non lineari, di oscillazioni intorno a diversi stati di equilibrio - no, questo non l'ho messo; l'ho tolto all'ultimo momento; è nuovo di giornata -,* equilibrio di onde, di turbolenze e di probabilità. Dovremmo tentare di utilizzare modelli matematici prendendo in considerazione dati quantitativi in nozioni di soglia al di là delle quali appaiono fenomeni nuovi, partire alla ricerca di nuove metafore, immaginare come dei vortici caotici che nascono all'incontro delle acque, alla confluenza di due fiumi e tentare di intravedere in essi delle regolarità, dei bacini d'attrazione..." eccetera, eccetera. "Dovremmo tentare di rappresentare le nostre cellule come attività eterogenee, come società complesse in ricomposizione permanente che esplorano giorno dopo giorno il campo dei possibili, e sono sottoposte dalla notte dei tempi a vincoli cangianti e contraddittori".

Ora, questo sembra proprio una definizione o, diciamo, una descrizione di questi sistemi di cui ci occupiamo. Quello che manca a questa descrizione è ancora un ulteriore venir meno, cioè il fatto che questo elemento della cangianza, in-Assenza è visto da questa ulteriore parte in cui il sistema oscilla, ma oscilla, in un certo senso, trasportato in un luogo dove esso è già cessato, dove l'oscillazione del sistema ha prodotto, nel suo costante fattore di cessazione, un ulteriore elemento che cessando ha prodotto un altro piano. Cioè questo piano di cui parliamo è dove il morire è venuto meno, dove la morte è morta, dove, in un certo senso, l'attività biologica, o quello che noi osserviamo, in realtà, è soltanto una traccia di un sistema molto più complesso il quale è un sistema non visibile, non direttamente visibile, ma che al suo interno ha anch'esso continuamente questo fattore, questa costante che ha come suo fattore relazionale questa modalità di relazione che è la continua cangianza.

Il pezzo che avete ascoltato ha questi due luoghi di aggregazione, ma poi è costantemente attraversato da elementi di cangianza, cioè di trasformazione. Il sistema di cui parlo ha continuamente questo elemento di trasformazione, pur avendo al suo interno una costante, che è quella che ho chiamato Ko - e che c'è da qualche parte in questi scritti che abbiamo presentato -, che è quella costanza capace continuamente di produrre una trasformazione, e che dà luogo a quello che è il nostro gesto del pensiero normale. Il gesto del pensiero normale - che è quello che dà il linguaggio, che dà la parola, che dà la descrizione, che dà i concetti, che dà l’astrazione -, ulteriormente svuotato, ulteriormente posto in una condizione di cangianza, ulteriormente posto in una condizione dove il luogo viene meno, dove il luogo dei possibili e della probabilità viene ulteriormente meno e si forma un ulteriore livello di probabilità, probabilmente ulteriormente complessa, questo è il luogo in-Assenza, è il luogo che noi descriviamo e che continuamente mi attraversa.

Passo la parola a Susanna.

Susanna Verri: Devo dire che l'intervento che adesso ha fatto Paolo mi ha messo in un imprevisto - diciamo - che adesso vi racconterò, così vedremo come poter procedere. Perché io pensavo di leggere un brano da I quaderni di Malte Laurids-Brigge di Rilke,* molto brevemente, per aprire il nostro tema, per aprire al gesto-pensare in-Assenza e alla morte della morte, di cui parlava Paolo, e all'astrazione della morte concreta con la descrizione del poeta, di Rilke, di una morte, di una morte che aveva occupato di sé non solo il personaggio che moriva, ma l'intera contrada in cui questa morte avveniva.

Perché m'era interessata questa descrizione, direi poetica, anche se all'interno di questo romanzo? Perché c'era in nuce questo concetto, che poi Rilke discute o dispone in gran parte di questo libro, secondo cui ogni uomo porta in sé come un frutto che abbia al suo interno il nocciolo: la sua morte. Ed è un punto di osservazione che mi aveva colpito molti anni fa, quando l'avevo letto, così come questa descrizione dell'invasività di questa morte di questo ciambellano.

Dicevo che l'intervento di Paolo aveva poi talmente aperto il campo che tornare a un'occupazione della morte era abbastanza desueto, o così mi sembrava.

E' una bellissima descrizione perché è bella, anche, la vicenda di questo ciambellano che muore, e muore con una morte importante - come è stato lui importante - e anche proterva - come sembra sia stato lui anche in vita - perché occupa per due mesi tutta la contrada intorno al paese sul quale il ciambellano aveva potestà. Perché per ben due mesi e passa questo personaggio pretende, mentre sta morendo, di essere portato in giro per tutto il suo palazzo, per le ali di tutto il suo palazzo, dai servi, da tutte le persone che fanno parte del suo entourage, incessantemente durante il giorno, mentre di notte esce questa voce tremenda che sveglia tutto il villaggio e impedisce a tutti poi di lavorare bene il giorno dopo, che è la voce, dirà Rilke, della morte.

E allora volevo - solo brevemente purtroppo - leggervi questo brevissimo tratto di Rilke che ha raccontato di questa peregrinazione incessante per tutto il palazzo, durante il giorno, di questa condizione di collettiva veglia notturna, e poi delle richieste di questo ciambellano che non dorme nel suo letto, non sta mai nel suo letto ma ormai per terra, come un sacco. Si sta spegnendo, per terra, con tutti i servi intorno, "Ma" - scrive Rilke - "qualcosa durava ancora. Era la voce, la voce che anche solo sette settimane prima nessuno aveva mai conosciuto: poiché non era la voce del ciambellano. Non era Christoph Detlev la cosa a cui apparteneva quella voce, era la morte di Christoph Detlev.

La morte di Christhop Detllev viveva già da molti, molti giorni a Ulsgaard e parlava a tutti, e pretendeva. Pretendeva d'essere portata, pretendeva la camera azzurra, pretendeva il salotto piccolo, pretendeva la sala. Pretendeva i cani, pretendeva che si ridesse, si parlasse, si suonasse e si stesse in silenzio, e tutto ciò insieme. Pretendeva di vedere amici, donne e morti, e pretendeva per sé di morire: pretendeva. Pretendeva e gridava...

...La morte di Christoph Detllev, che dimorava ad Ulsgaard, non si lasciava far fretta. Era venuta per dieci settimane, e dieci settimane restò...

...Questa non fu la morte di un idropico qualsiasi, questa fu la morte cattiva e principesca che per tutta la vita il ciambellano aveva portato dentro di sé e nutrito di sé. Tutto l'eccesso di orgoglio, volontà e imperio che egli non aveva potuto consumare ai suoi quieti giorni, trascorreva nella sua morte, nella morte che ora sedeva e scialava in Ulsgaard.

Come avrebbe mai guardato, il ciambellano Brigge, chi avesse preteso da lui ch'egli dovesse morire una morte diversa? Egli morì la sua pesante morte".

E mi sembrava che questo brano rendesse, anche figurativamente, questa occupazione che la morte, la morte concreta produce in Homo sapiens. Produce come atto del finire quando avvenga senza il passo ulteriore di cui stiamo parlando, e produce anche in vita in quel nucleo arido e vuoto che sta all'interno del vivere e del pensare di Homo sapiens come conseguenza di questa morte non astratta.

Questa premessa era poi per seguire, invece, tutta quella che è stata ed è ancora la parabola, diciamo, il percorso - ma neanche il percorso -, la stratificazione dei piani diversi di astrazione di questa morte concreta che ho seguito in tutti questi anni nel lavoro di Paolo Ferrari, nelle sue opere, nei suoi scritti, nella sua attività, nei Seminari. Perché questo grande tema della morte e dell'astrazione della morte, questo gesto pensante, questo gesto del pensare di cui stiamo parlando questa sera, è stato dall'inizio al centro del suo lavoro, della sua ricerca e anche della sua scrittura.

E allora - molto brevemente - questa sera avevo segnato alcuni testi importanti da questo punto di vista, in ordine cronologico perché c'è appunto un procedere anche, un procedere dal racconto di un'esperienza che diventa fin dall'inizio un'esperienza conoscitiva, come i nostri stessi Seminari [che] hanno da sempre la premessa del piano esperienziale-conoscitivo di questi processi che stiamo seguendo. Dunque, la narrazione di una nuova esperienza del vivere e del pensare, nel lungo racconto dell'89 che si chiamava La morte assente. La nascita dell'Altro, era già orientata, strutturata, nel fondo, verso la fondazione di tutta un'elaborazione anche concettuale di questa nuova esperienza. E allora lì avevamo un racconto, un racconto proprio di una nuova esperienza del vivere e del pensare, intessuto da una filigrana di elaborazione dei concetti che sarebbero poi venuti dopo. E infatti il Lungo racconto, questo Lungo racconto che ha come sottotitolo La morte, il vivere e l'esperire la morte in-Assenza di sé, ha una fase d'inizio in cui si racconta la nascita del nuovo pensare e quindi il piano dell'esperienza mai prima esistita, ha una prima fase della rivoluzione concettuale simbolica in cui si comincia a tratteggiare quello che sarà il nuovo rapporto con la realtà dato lo spostamento dell'equilibrio vita-morte prodotto da questa morte assente, e una seconda fase concettuale - di cui è stata distribuita una pagina anche questa sera - in cui si apre al nuovo livello simbolico e astratto.

A questo primo Lungo racconto seguivano di pochi anni i Seminari che incominciavano nel '91. In particolare io stavo vedendo in questi giorni i Seminari del '93-94 in cui questo tema della morte astratta, dell’astrazione della morte segue l'andamento di quello che era la pubblicazione del III Saggio sulla morte che avveniva in quegli anni. E il tema dell'astrarre la morte viene condotto nei Seminari-laboratorio che quell'anno - attraverso l’intervento anche del Maestro Carlo Balzaretti, della musica, dell'esplicazione proprio di certi procedimenti in-Assenza che avvenivano nell'esecuzione, nella composizione della musica - avevano questo piano del Seminario-laboratorio, cioè un piano anche esplicativo-esperienziale in cui, quindi, il tema del rapporto vita-morte, dell'equilibrio vita-morte e dello spostamento di questo equilibrio vita-morte, che nel III Saggio - di quell'anno - compare in tutto il piano concettuale, nel Seminario-laboratorio arrivava a essere posto - più da vicino, diciamo - sul tema di come potesse essere astratta questa morte concreta che in ciascuno abitava; e che cosa significasse questa possibile astrazione; e come questa potesse portare a un nuovo livello di coscienza, all'interno della morte tout court, e, per estensione, anche - dal punto di vista che poi a me maggiormente, o ancora, interessava - alla modificazione di quello che era il nucleo di morte concreta, cioè il nucleo deserto e arido presente in ciascun essere umano, in ciascun Homo sapiens, retaggio dell'animale ma fattore della patologia di specie; e quindi la guarigione in-Assenza come modificazione di questo nucleo concreto.

E, da ultimo - ultimo punto di questa introduzione che è solo una brevissima introduzione perché ci sono in mezzo salti di anni -, la morte astratta come è vista nelle a-meditazioni del 2000 - sono aforismi alcuni dei quali avete già visto: la morte astratta è luogo dell'atto del pensare, del nuovo gesto del pensare, per cui dipende dalla presenza in Homo sapiens di una entità sufficiente di questa morte astratta la possibilità che Homo sapiens stesso pensi e che il suo pensiero diventi un pensare sufficientemente affinato per cogliere il nuovo gesto pensante, in-Assenza, che è quello di cui ci stiamo interessando questa sera.

E mi fermo qua.

Luciano Eletti: Il richiamo di Susanna a questo testo di Rilke - che io ignoravo - mi fa venire in mente un altro riferimento letterario che possiamo tirare in campo e che sembra il calco di Rilke: la morte di Ivan Il'ic, di Tolstoj, dove invece la morte è vista dall'altro lato o, almeno, c'è un tentativo di vederla dall'altro lato: il protagonista scopre di essere condannato a morte inesorabilmente per un banale incidente, e combatte contro la morte, non l'accetta, gli sembra troppo ignobile morire per un banale incidente come quello; finché questa morte è, per così dire, introiettata e, alla fine, Ivan Il'ic impara a morire. E questo è lo strano racconto di Tolstoj che sembra l'esatto calco di quello di Rilke.

Poi mi son chiesto anche, riguardo al racconto Il giocatore di scacchi con la morte,* se questo sia anche il miglior commento alla famosa scena de Il settimo sigillo di Bergman: il cavaliere che gioca a scacchi con la morte in riva al mare, che si gioca la propria vita; un tema che credo sia abbastanza ricorrente nella letteratura medioevale; forse c'è anche un quadro di Dürer: Il cavaliere e la morte. E sarebbe interessante, in altra occasione, leggere le critiche su questa famosa scena del film di Bergman che, per quel poco che ricordo, ha molto a che fare con questo tema di una morte, anche abbastanza angosciosa, dettata dalla peste.

Passando a quello che era il mio...

Paolo Ferrari: La differenza però è che è vero che in questo racconto non ci sono vie d'uscita, però contemporaneamente la morte è distante, come questo elemento, fattore, che comunque, con questa cessazione, con questa parziale cessazione, con questo elemento del fatto che la morte comunque è un limite alla vita, è quello che - a mio avviso e ad avviso dei vari ricercatori, nel sistema biologico che noi vediamo -, è il fatto che la morte ha permesso la configurazione dei sistemi complessi, mentre nel sistema [? aggettivo incomprensibile all'ascolto] la morte è soltanto distruttrice e pestifera, mentre qua c'è il fatto che la morte deve cessare. Cioè il pensiero umano è un ulteriore livello tale per cui questa morte che è entrata nel sistema biologico, questo tipo di morte deve cessare, deve subentrare questo tipo di morte congrua.

Luciano Eletti: Sì, credo che questo tra l'altro ci sia in quella scena. Credo che [il film] sia ambientato nel XIV secolo, all'epoca della peste nera, e le rappresentazioni della morte in quell'epoca non erano certo quelle della dignitosissima figura della morte che gioca a scacchi, che è per nulla medioevale, da questo punto di vista, e lascia adito a pensare la morte in modo meno medioevale di quello che pure continuiamo a nutrire in noi che abbiamo ancora un fondo medioevale di cui ci dimentichiamo spesso.

Quello di cui volevo parlare io prendeva spunto dalla ripubblicazione di un libro di Massimo Cacciari - di dieci anni fa - che s'intitola Dell'Inizio,* un libro molto complesso che neppure io saprei scandagliare, però alcune pagine sono molto interessanti ai nostri fini.

Il problema del libro è uno solo, per quanto sia variamente elaborato, e cioè "il pensiero dell'Inizio" che, dice esplicitamente, è "il pensare tout court". E non è solo il famoso problema del cominciamento di cui tratta Hegel nella Logica, e così anche altri filosofi, in termini molto meno espliciti. Infatti, riprendendo Rosenzweig che prendeva in giro i filosofi che parlavano di questo cominciamento - sembravano starnazzamenti di chi ha già fatto l'uovo, per cui a ritroso giustificano la strada fatta -, Cacciari sostiene che non è questo quello che intende indagare. Non è l'origine il procedere: l'origine può dare luce a quanto è avvenuto, non dedurlo; non si può dedurre ciò che è avvenuto dall'origine. E, citando anche Schelling - l’ultimo Schelling - che diceva che è un pensiero povero e sconsolato quello che deve muoversi narrando e argomentando il procedere, ebbene, da questo punto di vista, è abbastanza strano il tema di Cacciari: studiare questo pensiero dell'inizio - sembrerebbe. Che non è il pensiero dell'origine, né il pensiero che si argomenta per procedere; nei nostri termini è un pensiero che segue un tragitto da A a Z passando per tutti i punti necessari. E d'altra parte Cacciari tende anche a distinguere nettamente; dichiara, anzi, che il pensiero dell'inizio è assolutamente distinto dal pensiero della fine. E qui le strade si dividono.

Io ho tentato di ricostruire la forma del gesto in-Assenza, del pensare il gesto, del gesto-pensare, che è la stessa cosa, visto che non si può più parlare di un pensiero che non implica l'atto che lo pensa. Per cui all’Assenza è confacente solo un pensare come atto e attività; e in questa attività, oltre a non esistere un procedere, non ha senso neanche postulare una diversità di quest'atto dalla fine, dal finire, perché è un pensare dell'inizio e della fine al tempo stesso. E' un pensare che accetta l'evidenza, il presentificarsi della cosa: nell’atto stesso in cui questa appare, questa si può sottrarre, quindi contemporaneamente finisce, e finisce in modo radicale. Quindi appare molto chiara la differenza dall'intelaiatura di questo discorso di Cacciari, che pure è interessantissimo.

E questo pensare-gesto è pure ben distinto dal pensare di Homo sapiens. Cioè questo discorso mira a cercare di scontornare e a staccare da un fondo indistinto quello che è peculiare al fattore-Assenza, che è il suo gesto, che non è un attributo ma, in termini spinoziani, è un modo di quest'Assenza. Per esempio è un gesto che è un pensare; in quanto gesto-pensare è affettivo, e solo in quanto affettivo ha coscienza di sé. E' completamente diverso dal pensare di Homo sapiens che si può esplicitare in termini molto semplici, alla fine. E infatti il libro di Cacciari che parla di quest'inizio è un tomo abbastanza voluminoso e pieno di strade complicatissime, su diversi piani, che pure rifiuta un procedere, lavora in parallelo, ma che pure richiede un testo che pochissimi, credo, siano stati in grado di leggere. Invece il pensare, il pensare-gesto non ha bisogno di un tomo perché può essere completo nell'istante; e lo si può vedere qui, nell'istante in cui il dito tocca il tasto del pianoforte, in cui la cellula musicale è già compiuta, e il procedere non è più un procedere secondo i canoni, per esempio quello della forma-sonata. Essendo compiuta in ogni punto, potrebbe essere una musica puntiforme che non ha bisogno di altre espressioni. Diciamo che è l'orecchio di Homo sapiens che ha bisogno di una continuità, di una durata, per cui la Musica dell'Assenza riproduce vari punti già compiuti in sé in modo che l'orecchio di Homo sapiens possa coglierla - abituato alla durata, alla necessità di struttura dei suoni perché se no fa fatica a distinguerli dai rumori.

Perché l'altra caratteristica fondamentale di Homo sapiens, che si stacca nettamente dal gesto, è quella per cui Homo sapiens ritiene - e paradossalmente dal punto di vista del pensare in-Assenza, del gesto-pensare - che quando non pensa mentalmente non pensa, cioè che occorra o un rimuginamento o un'argomentazione perfettamente logica o una poetica, insomma occorra costruire una strada su cui camminare, e quando questa strada non viene compiuta, quando il pensiero non è pensato, il pensare non esiste, cioè scompare. Ma scompare nel senso che crea una forma di scoramento, direi, nel senso di perdere il sentiero proprio, di non sapere più dove si va, dove si poggia.

E questo è abbastanza paradossale perché è l'esatto opposto di quello che il gesto in-Assenza invece implica, come attività. Cioè l'uomo ha continuamente bisogno di elaborare delle cose col pensiero, cose che alla fine lo occupano e tendono ad accumularsi, a creare grossi tomi che sicuramente sono spesso necessari a Homo sapiens per riuscire a vedere dalla vetta di questi tomi un orizzonte più vasto, quell'orizzonte sotto soglia, quel muoversi sotto l'orizzonte degli eventi di cui Homo sapiens è quasi completamente incapace, pur avendone - in una parte spazialmente molto ridotta del cervello, ma la più sviluppata - potenzialmente la capacità.

E allora anche questi Seminari sono una delucidazione di questo. Cioè sembra, fondamentalmente - lo si può anche argomentare, in qualche modo -, e come è stato fatto nei Seminari passati, che noi diciamo sempre le stesse cose, che continuiamo a introdurre un campo; questo è stato esplicitamente detto, due o tre anni fa. Ogni Seminario è una nuova introduzione, un nuovo punto da cui partire per superare il blocco di evoluzione della specie che è costitutivo di Homo sapiens. E mi sembra che sia molto importante riuscire a dare una forma a questo gesto-pensare che in un punto è capace d'aprire un varco, che si sa nutrire degli interstizi che gli umani lasciano e che non sanno far fruttare e che anzi respingono come se fossero il pericolo, mentre il pericolo è quello di chiudere tutti gli interstizi. E la differenza è molto netta, e quindi non è neanche difficilissimo riuscire a coglierla, ma una volta colta è possibile chiaramente distinguere, e quindi agire, in un agire in quella forma del gesto-pensare che è un non agire, è un fare che non fa niente. Perché il fare spesso è compulsivo, è una richiesta che Homo sapiens s'impone per tacitare ben altri problemi, è un fare che all'apparenza è inattivo perché predispone, perché apre un campo, così come questi Seminari apparentemente dicono le stesse cose perché devono continuamente ricreare questo campo, ogni volta nell'attesa che più persone riescano ad appoggiare un piede, e anche questo piede smaterializzarlo e renderlo meno corpulento in modo che anche questo piede possa essere attraversato dal soffio del pensare in-Assenza.

E questa è un'altra differenza: il fatto che oggi si ritiene che il cervello pensi, invece il cervello da un lato non pensa ancora come potrebbe, e dall'altro non è solo il cervello che pensa: se tutto il soffio penetrasse il corpo umano, anche quel piede che calca questo tappeto penserebbe.

Avrei altre osservazioni, ma mi riservo per la prossima volta.

Paolo Ferrari: Nicolò, a te i tuoi aforismi, la lettura degli aforismi.

Nicolò Ferrari: Dunque, io volevo leggere degli aforismi che ho scritto dopo aver letto gli Aforismi in-Assenza, quindi sono un po' gli aforismi intorno agli Aforismi in-Assenza.

Il primo è: "L'uomo percepisce il cessare e afferra - anche se solo nella sua facoltà cognitivo-concettuale - l'Alterità, la differenza, la morte come tale. Manca invece della consapevolezza del proprio cessare ed essere differente da sé, dell'assumersi la propria - eventuale - differenza e mancanza - simultaneamente.

Tutto cambia se cessa la proiezione-percezione del soggetto sulla realtà".

E questo è il primo aforisma sul cessare.

Il secondo aforisma è sull'atto, il gesto in-Assenza.

"In-Assenza è atto che s'origina ponendosi sul ciglio dell'Asistema ad osservare mutare (l'universo che è in relazione).

E' peculiare che il gesto in-Assenza dia luogo ad un a-sistema - radicale modificazione del vecchio sistema - non solo per l'osservatore posto fuori diversamente dall'universo noto - concordemente al I Principio d'Inclusione -, ma pure si manifesti e si faccia esistente - e in relazione - a colui che sia all'interno e corrisponda al vecchio sistema (Homo sapiens s.); l'antico universo si arricchisce, stratifica di informazioni e acquista una maggiore libertà (di essere sé o altrimenti): la proprietà dell'Asistema è di essere in-relazione affettiva (pensiero inclusivo non enclusivo dell'Altro e dell'Alterità)".

L'ultimo aforisma s'intitola Tanto rumore per nulla.

"Più è profondo e articolato il processo di apprendimento tanto più si ha esperienza di un luogo mentale più ampio i cui confini si disegnano precisamente e in cui si ha esperienza di un poco di nulla, una sorta di dematerializzazione della realtà".

Paolo Ferrari: Quello che vorrei solamente aggiungere, appunto per definire un pochettino di più tutta questa questione, è il fatto - come diceva anche Luciano, e Susanna da un altro punto di vista, e portava i suoi esempi - che questo gesto pensante, per chi lo ha - e in questo caso il sottoscritto ce l'ha -, è la cosa più semplice di questo mondo. Cioè noi dobbiamo qui, in questo luogo, continuamente costruire tutte queste introduzioni, come le chiama Luciano; o in tutta questa lunga storia di questo gesto - lunga o brevissima storia - generare il fatto di un'argomentazione intorno alla quale poter dire qualcosa che costruisca un campo tale che, capace di questa oscillazione, crei nell'attività mentale di chi segue questo [...] l'oscillazione si formi, oscillazione tale per cui questo piccolo elemento, questo poco di nulla - come diceva prima Nicolò - possa, in qualche modo, partecipare e produrre questo elemento, questo interstizio. E cioè l'interstizio si faccia vuoto, il cervello possa pensare attraverso questo vuoto, il cervello che produce il pensiero, il pensiero stesso che è pensante ma che non è capace di cessare, accetti la cessazione, accetti le sue microcessazioni che sono la sua vera attività di pensiero e, nell'accettazione di questo, che questo produca questo nulla, e questo nulla che passi attraverso la mente, la mente-corpi che non sono più scissi, non son più separati in due ma che siano pronti, si rifacciano pronti a ricevere questo tipo di attività differente, la quale attività, nel momento stesso in cui si mostra, scompare, si astrae, cessa del suo cessare stesso, la morte cessa del suo morire, e così via.

Questo, che ha tutto questo elemento di complessità enorme, questi tomi scritti, tutto questo lavoro lunghissimo che in questi anni abbiamo fatto, che ho fatto, nello stesso tempo è contenuto in questa parola che sto dicendo, perché è un atto semplicissimo: è come se fosse l'assunzione di un nuovo tipo, di un nuovo livello di linguaggio, il quale linguaggio parla questa lingua della cessazione, del finire nel momento stesso dell'iniziare; e quindi questa capacità, in un certo senso, di organizzarsi in continuazione senza dover avere un'organizzazione precostituita.

Lungo i passaggi che ci son stati di queste varie fasi, io mi ricordo di una fase - una fase dell’ultimo passaggio, nell'88 - in cui era talmente decostruito tutto il processo che non mi era più possibile neanche camminare perché tutto il processo di costruzione dell'equilibrio del camminamento era tolto, perché era come se tutta la postura, e quindi tutto l'asse centrale dovesse essere modificato tale per cui la spinta veniva dal di sotto invece che venire dall'alto: la gravità veniva ribaltata; veniva posto, in un certo senso, quello che io recepisco in continuazione: come se ci fosse una forza o un qualche cosa che mi spinge dal basso verso l'alto; e così in continuazione, come se io fossi sulla punta dei piedi.

E questo produce continuamente questo gesto che si fa parola e incomincia a parlare, oppure, nella musica, diventa musica e incomincia a suonare, senza bisogno che questa musica sia organizzata secondo determinate modalità che sono quelle della musica occidentale che usa certi suoi procedimenti tali per cui questa possa essere riconosciuta come entità, con dei punti di aggregazione, i quali punti di aggregazione distinguono la musica da quello che potrebbe essere invece un elemento indistinto. La musica che io compongo ha una serie di elementi di aggregazione tali per cui, poi, l'orecchio di Homo sapiens possa organizzarseli nel suo modo, ma nello stesso tempo passa un altro tipo di gesto il quale ha un'autorganizzazione interna, cioè ha questo tipo di gesto il quale è capace continuamente di mettersi in piedi, di togliere questo appoggio dell'essere messo in piedi, togliere continuamente l'equilibrio, ricreare l'equilibrio; ma tutto questo su un piano in cui tutto quanto è già cessato, cioè è cessato del bisogno della sua evidenza, della sua costanza, e la sua costanza è data da questo - io dico [...] mi verrebbe da disegnare come se fosse un filo di luce, il quale filo di luce è totalmente immateriale; questa immaterialità feconda questo elemento di questo gesto; questo gesto a sua volta si svuota di sé stesso perché lascia continuamente il campo che è capace di questo nulla, il quale nulla può essere continuamente insufflato - come diceva Luciano - di un soffio.

E qui viene fuori tutta la questione del soffio vitale, oppure del soffio della filosofia orientale la quale ha più familiarità con questi tipi di gesto, anche se questo gesto di cui io parlo comunque nasce in un ordine, in un'organizzazione occidentale, nasce in un sistema, nasce dal logos, si prende in carico il logos, lo svuota, lo porta su un altro livello, non solo, ma [lo fa] perché lo considera come un fatto evoluzionistico, lo considera come questi corpi-mente che si son trasformati, son diventati altri, avendo assunto questo filo che è un punto di costanza, questo filo dematerializzato che è un punto di costanza che continua a trasformare tutti gli elementi, e diventa a sua volta punto di invarianza in cui le variabili sono continuamente immesse, vengono continuamente trasformate.

Mi fermo qui e suono con Lisetta.

Allora, il primo pezzo è quello su Scriabin? [rivolgendosi a Lisetta Carmi che conferma].

Scriabin, come avevo detto l'altra volta, è un compositore russo di questo secolo, un mistico, anche. Questo è un pezzo che ha come un afflato dolente della cultura russa e, nello stesso tempo, l'ho prodotto, lo vorrei interpretare, l'ho scritto anche più astratto del pensiero di Scriabin che si porta appresso un misticismo un po' pesante, alla russa.

[Paolo Ferrari e Lisetta Carmi suonano al pianoforte un Raddoppio sul pezzo intorno a Scriabin. Durata 4']

Questo invece è intorno a Schönberg, intorno all'Opera 19, quando Schönberg è nella fase della atonalità e incomincia a concepire la dodecafonia, cioè questa nuova strutturazione musicale; mentre qui, nella fase dell’Opera 19, è ancora abbastanza libero, è in una fase, diciamo, di decostruzione musicale e di una costruzione autorganizzativa.

[Paolo Ferrari e Lisetta Carmi suonano al pianoforte un Raddoppio sul pezzo intorno a Schönberg. Durata 5']

Paolo Ferrari: Allora, se ci sono domande...

Questo gesto vuoto - che è un gesto libero ma non spontaneo - che si porta appresso tutta la civiltà, la svuota, la ruota, e produce questo silenzio della mente.

E qui possiamo finire.

Chi vuole andare, va. Io ripeto il pezzo con Ugo, se ne ha voglia. Ne hai voglia?

Ugo Brancato: Sì.

Paolo Ferrari: Se no, potremmo sentirlo registrato.

[Paolo Ferrari al pianoforte e Ugo Brancato alle percussioni eseguono il Raddoppio del pezzo precedentemente suonato. Durata 6']



* J.C. Ameisen, Al cuore della vita. Il suicidio cellulare e la morte creatrice, Milano, 2001.

* P. Ferrari si riferisce al materiale distribuito ai partecipanti al Seminario, in cui compaiono due brani tratti dal libro di Ameisen diversi da quelli che P. Ferrari sta leggendo.

* R. M. Rilke, I quaderni di Malte LauridsBrigge, ed. Garzanti, Milano, 1982.

* Il titolo esatto del racconto è La partita a scacchi.

* M. Cacciari, Dell'Inizio, Milano, Adelphi, 1990.