V Seminario 'sui margini dell'Assenza' 1996-1997
13/3/97 

L'assunzione affettiva dell'altro (dello straniero, della differenza, della morte, del nulla) come segno e strumento anticipatori dello scarto (dalla realtà dominante), varco per l'anti(anti)sistema Assenza


 

 

Paolo Ferrari:
Il tema di stasera, del V Seminario, come potete vedere nel nostro piccolo manifesto, è l'assunzione affettiva dell'altro che è lo straniero, la differenza, la morte, il nulla, segno e strumento anticipatori dello scarto dalla realtà dominante, varco per l'anti(anti)sistema Assenza.
Già questo titolo potrebbe essere tutta la conferenza-Seminario. Già i redattori del Corriere della Sera si sono arrabbiati moltissimo, dicendo che questo era un poema non era un titolo, quando l'abbiamo mandato perché venisse messo nei programmi della giornata. In effetti questi titoli sono una sintesi: io lavoro molto per sintesi, per analisi di certi fenomeni, di certi processi, e poi una sintesi rapidissima. Questo titolo vuol dire fin dall'inizio che l'altro, che è la realtà, che è la differenza, deve essere assunto e perciò non soltanto riconosciuto. Io in un primo momento avevo messo 'il riconoscimento dell'altro', ho preferito poi questo termine di 'assunzione', nel senso di prendere con sé o su di sé, prendersi carico: l'affettività o l'affetto, come lo intendiamo, è prendersi carico dell'altro. Questo prendersi carico ha avuto, nelle varie dottrine religiose e non, diversi tipi di interpretazione, di accezione; nel nostro modo di assumere, e quindi prendersi carico, c'è sempre implicita quell'altra parolina, quell'altro termine acutissimo che è il distacco. Infatti questo titolo dice 'prendersi carico dell'altro, il quale altro è la differenza', e cioè nel momento stesso in cui mi prendo carico dell'altro mi prendo carico della differenza, cioè dell'alterità, cioè, spostando fino agli estremi limiti, del non essere che è ancora l'alterità rispetto l'essere. Nel non essere c'è anche il nulla, quello che io chiamo il vuoto, il vuoto non negativo, il vuoto affettivo, un'altra volta.
Questo come inizio, e già da questo noi dovremmo incominciare ad analizzare tutte le varie implicazioni che anche la differenza, il nulla, lo straniero, la morte, l'assunzione, il segno, lo strumento, l'anticipazione implicano; ma per il momento lascio lì a sedimentare un momento.
Sul lato destro per chi guarda c'è la poesia Scienza d'amore: "Metti un dito sul fuoco, l'anima nella stiva del cielo, la carcassa del corpo entro la gibigianna del vivere e del pensaaare. Corri subito da me che sei scienza d'amore, passività libera dal tempo leonino. Io muoio, assente me da vicino". Questa è una poesia che appartiene a una raccolta che ho chiamato Dai quaderni di terapia perché è relativa, si inserisce nel grande filone di cui mi occupo che è la cura, non solo la cura in generale ma la terapia vera e propria la quale terapia implica la guarigione, implica una malattia e implica una guarigione. In questa poesia ci sono moltissimi segni, sensi, valenze, dimensioni affettive e razionali, c'è questo pensaaare centrale, questo pensare sottratto, questo pensare che è materia che si sottrae da se stessa nel momento stesso in cui si allunga, nel suo far eco, pensaaare, assentarsi del pensare, ma sempre nella sua massima presenza: quando io dico Assenza vuol dire essere presenti, perdere sé per essere ancora più presenti. Questa poesia la pubblicheremo su Zeta
* di Campanotto con un'introduzione al problema terapeutico fatta da Susanna Verri, non in questo numero ma nel prossimo.
Il tema della terapia, il tema della clinica è un grosso tema di cui ci occupiamo, e ce ne occupiamo anche dai diversi punti di vista e vogliamo includere in questo termine 'terapia' i diversi punti di vista, la diversa storicità che la terapia ha implicato, la psicoterapia ha implicato, in particolar modo in queste ultime volte la psicoanalisi con le sue varie tendenze, fino ad approdare ad un terreno, io dico, il nostro, che è postpsicoanalitico, cioè il post, l'altro.
Dico questo perché voglio che sia sempre chiaro il fatto che ciò di cui noi trattiamo è un ambito specifico molto allargato della cura, della terapia, dell'arte, della filosofia, della scienza, è un ambito scientifico molto allargato, ma che in un certo senso include, non 'ma', che include il suo allargamento, tutte le varie discipline che nel mondo occidentale fino adesso si sono sviluppate - anche nel mondo orientale, per quello che ci concerne -; e perciò nel campo della psicoterapia le varie dottrine terapeutiche e nella maggior misura quella che è la psicoanalisi perché è la dottrina più importante dell'Occidente, dal '900 in poi, per quello che riguarda la psiche, anche se all'interno di questo io dico che la psiche, nell'ambito della terapia in cui ho lavorato, mi ha occupato di meno che un altro livello che io ho chiamato il livello a-mentale, non-mentale, oppure quello dell'astrazione, oppure Assenza. Però questo non significa che tutte le altre dottrine vengano respinte, ma queste vengono incluse.
Quello che io tengo a dire, sempre di più, è il fatto che il lavoro di cui mi occupo è il lavoro della razionalità, del massimo livello razionale il quale è capace di includere al suo interno tutti gli altri livelli sia razionali sia anche con certe tendenze che si dice, per opposizione alla razionalità, irrazionali; ma questo è un sistema altamente razionale, anche se di una razionalità che non è soltanto quella consona secondo quelli che sono i dettami ristretti della razionalità occidentale basata sulla struttura del pensiero aristotelico e poi di quello cartesiano e così via.
Adesso dò la parola a Susanna.


Susanna Verri: Allora, nell'intervento di questa sera, in relazione al tema dell'assunzione affettiva dell'altro, come diceva Paolo, come in tutto il percorso che è descritto dal titolo di questo Seminario per giungere al varco anti(anti)sistema Assenza, io partirò da due considerazioni che provengono dall'area della psicoanalisi e quindi vi esporrò alcune considerazioni relative al concetto di angoscia in Freud e relative ad alcune teorizzazioni sviluppate da Melania Klein nel seguire la maturazione del neonato, i primissimi mesi di vita del neonato, diciamo da zero a dodici mesi. Questo perché mi interessa, nell'ambito del tema affettivo di cui ci stiamo occupando, puntualizzare innnanzitutto l'importanza dell'angoscia e il senso dell'angoscia in Freud come sentimento affettivo, e in secondo luogo, per quello che riguarda la Klein, come il percorso di maturazione già nel neonato includa la possibilità che, ampliando il rapporto di realtà e a mano a mano che si forma il rapporto di realtà, quella che è l'iniziale pulsione di morte già esistente nel neonato e rappresentata, come poi vi dirò, dal suo precoce Super-io, possa essere addolcita, come attenuata, perdere la rigidità e il carattere totalmente avulso dalla realtà con cui si pone all'inizio, e andare incontro a una modulazione che prelude a un rapporto di realtà caratterizzato sì, poi, anche, dalla presenza di un Super-io, ma che non sarà più quello sadico iniziale, quindi non sarà più questo Super-io così terribile e così connesso alla pulsione di morte.
Questo in sintesi tutto il tema di cui mi occuperò, per darvi le linee generali di questo percorso; adesso poi spero che si chiarirà meglio, nei dettagli, in quello che dirò.
Allora, la questione dell'angoscia in Freud, come è formulata nel 1926 in Inibizione sintomo e angoscia, viene descritta tra due polarità o, per lo meno, tra due tonalità. La prima è quella di un'angoscia come un segnale di un pericolo, l'angoscia risponde al segnale di pericolo e questo pericolo viene connesso principalmente al timore dell'evirazione oppure all'angoscia di morte. Il secondo versante, o la seconda accezione, per noi più specifica in questo mio discorso di questa sera, è quella per cui l'angoscia viene connessa a una perdita, e cioè in ogni esperienza d'angoscia vi sarebbe la ripetizione di una angoscia primaria che è l'angoscia vissuta nel momento della nascita, nel trauma della nascita.
Freud, come sempre fa quando scrive - afferma e poi ritorna sulle sue stesse affermazioni, le sottopone a critica, le abbandona, le modifica, le attraversa, le porta altrove anche rispetto alla prima affermazione -, contraddice poi questa prima asserzione dicendo che d'altro canto però il neonato non ricorda la sua nascita, non solo, ma non è consapevole della separazione dall'oggetto materno che avviene nel corso della nascita e dunque non potrebbe rivivere un'angoscia primaria legata alla nascita nei termini di aver capito che si sta separando da un oggetto. Tuttavia dice però che questa esperienza primaria è realmente traumatica ed è realmente il primo segnale d'angoscia, perché nell'atto della nascita viene gravemente turbata tutta la situazione narcisistica della libido in cui il bambino è immerso in quel momento, cioè c'è il passaggio dalla situazione intrauterina, dall'omeostasi intrauterina ad una situazione extrauterina che avviene traumaticamente con un improvviso e massivo aumento delle stimolazioni, con la perdita di questa quiete narcisistica e quindi con una situazione in cui entrano tutta una serie di stimoli sconosciuti, incontrollabili, che vengono dall'esterno, a cui il neonato non sa come fare fronte, a cui risponde con delle scariche anche muscolari, ripetendo poi o preannunciando quella che sarà la situazione che vivrà poi ad ogni situazione di angoscia dove pure vivrà un aumento di scariche massive, vivrà una situazione incontrollata di aumento di scariche, di perdita di omeostasi: si troverà quindi in una situazione di totale impotenza.
Nel corso della vita, nel corso della sua maturazione il bambino piccolo passa attraverso diverse situazioni in cui l'angoscia prende, a seconda della fase di maturazione in cui il bambino è arrivato, dei significati diversi, e quindi dall'iniziale - al momento della nascita - significato di turbamento di un'economia libidica, narcisistica, si ha poi la fase della perdita di oggetto che riguarda il momento in cui il bambino già inizia a pensare in termini di un'esistenza di oggetti esterni - e quindi può temerne la perdita e può temere anche la perdita dell'amore dell'oggetto esterno -, a una situazione ulteriore in cui ci sarà l'angoscia vissuta come simbolo o rimando a un timore di evirazione, e sarà questa la fase fallica in cui il membro maschile è investito della massima onnipotenza anche perché rappresenta - questo secondo un allievo di Freud, Ferenczy -, rappresenta anche la speranza di un possibile ricongiungimento con la madre, e quindi il timore della perdita che potrebbe avvenire nella castrazione è un rimando, di nuovo, una perdita oggettuale che simbolizza una perdita d'amore. E poi si arriva alla fase successiva in cui, superati questi passaggi, l'angoscia rappresenta il timore di una punizione. Cioè dopo la fase edipica e dopo l'istituzione del Super-io che Freud situa nella fase edipica, l'angoscia sarà pensata nei termini del timore di una punizione e quindi nei termini di un'ira che possa provenire dall'esterno, dai genitori o dalle istanze introiettate dei genitori o, poi, quando c'è la proiezione sulla società, da un più generale senso etico-morale che si può rischiare di contravvenire e da cui può provenire una punizione. L'ultima fase dello sviluppo dell'angoscia è l'angoscia che diventa paura della morte o paura della vita perché, come abbiamo visto, vita e morte sono legate nell'economia libidica e nell'economia psicologica dell'individuo.
Questa polarità vita-morte è un punto fondamentale anche nel pensiero di Melania Klein che è una sua allieva, possiamo dire, anche se non studiò direttamente con Freud, comunque elaborò la dottrina di Freud e la proseguì, essendo nata nel 1882 e avendo fatto analisi con due allievi di Freud. Molto velocemente - perché adesso non voglio soffermarmi su questo -, per darvene un'idea, Melania Klein sviluppò in particolare la tecnica psicoanalitica nella direzione dei bambini perché introdusse - e poi come sviluppo di questo la estese anche agli psicotici, ma in particolare per quello che riguarda la terapia dei bambini -, sviluppò una tecnica sua che utilizzava i giocattoli, e utilizzava quindi la modalità del gioco come possibile accesso alla relazione nei bambini molto piccoli, potendo quindi a questo punto sottoporre ad analisi bambini anche di due anni - piccolissimi quindi -, perché lei fra l'altro riteneva che fin dai primissimi esordi il mondo interiore del bambino fosse strutturato in modo che si potesse analizzare; riteneva che si potesse considerare il materiale che emergeva nel gioco un analogo del materiale del sogno e quindi che potesse essere interpretato; riteneva che attraverso le interpretazioni si potesse, anche in bambini così piccoli, produrre un'abrazione delle pulsioni inconsce e una verbalizzazione di queste energie inconsce che il bambino manifestava; e riteneva anche che in questo modo si potesse aprire la via per un'ulteriore e migliore organizzazione dell'economia pulsionale del bambino e dello sviluppo del suo io.
Studiò particolarmente la vita psichica come continuamente divisa tra una polarità vita-morte che portava, come vi dicevo prima, a considerare anche un'insorgenza, una presenza precoce di un Super-io nel bambino piccolissimo, mentre Freud, vi avevo detto prima, situa l'origine del Super-io verso i cinque anni, cioè all'interno della risoluzione del complesso edipico. Per Melania Klein invece....


Paolo Ferrari: Di' due parole su che cosa sia il Super-io perché alcune persone magari non lo sanno.


Susanna Verri: Sì. Allora, diciamo, il Super-io... Freud, nella sua seconda topica, divise l'organizzazione psichica interna in tre istanze che chiamò l'Io, l'Es e il Super-io e considerò il Super-io l'istanza morale, l'istanza regolamentatrice, diciamo l'istanza che si produce nel bambino quando vengono introiettate le figure parentali e quindi, dopo il superamento del complesso edipico, con l'accettazione della rinuncia pulsionale, nasce questa istanza morale che media l'accesso alla realtà, perché segna la nascita e l'acquisizione di un principio di realtà in contrapposizione alla tendenza precedente dell'economia psichica a dirigersi verso il principio di piacere. Quindi con l'accettazione del principio di realtà, che è segnata dall'accettazione della sconfitta edipica, se posso esprimermi così, anche se questo termine non è un termine propriamente freudiano, ma per indicare che nella risoluzione del complesso edipico c'è l'accettazione di una perdita, la perdita del soddisfacimento del proprio desiderio verso il genitore di sesso opposto, c'è la rinuncia pulsionale, per cui c'è la rinuncia a soddisfare questo desiderio. Questo segna l'ingresso del principio di realtà che comincia a superare il principio di piacere e in questa fase è possibile la formazione di una istanza morale e moralizzatrice; si dice che vengono introiettate le figure parentali, cioè non sono i genitori stessi, dice Freud che è il Super-io dei genitori stessi, cioè sono entità astratte che vengono introiettate, e queste costituiscono l'origine del Super-io che continuerà poi a segnare durante il percorso di tutta la vita una funzione di regola, di normalizzazione e anche di contenuto ideale. Vale a dire che discenderanno dal Super-io non solo la possibilità di acquisizione delle regole e delle norme ma anche l'acquisizione delle formazioni delle tendenze di valori ed idealizzazione, sempre che questo Super-io sia un Super-io non sadico - come quello di cui vi dirò poco dopo -, sempre che questo Super-io quindi riesca ad ottenere una sua modulazione, una sua mediazione.
Allora, la Klein dice invece che esisterebbe già nel bambino piccolissimo, quindi prima di tutti questi passaggi, un Super-io, però terribile, rigidissimo, un Super-io che chiama sadico e che sarebbe il diretto rappresentante della pulsione di morte. E vi dicevo allora che la vicenda dell'attenuazione di questo primo Super-io è parallela a tutta una serie di passaggi che segnano mediazioni con la realtà e che segnano la formazione dell'esistenza di un oggetto esterno, differenziato da sé ed esistente nella sua entità, appunto, come separato e non più solo come proiezione di sé. Secondo la Klein questo avviene da zero a dodici mesi, attraverso due fasi che sono la fase schizoparanoide e la fase depressiva. Nella fase schizoparanoide, che riguarda i primi sei mesi, esistono un istinto di vita e un istinto di morte che attraversano tutta una serie di complessi momenti di proiezioni all'esterno, e quindi ciascuno di essi viene separato, proiettato all'esterno. La fase si chiama schizoparanoide proprio perché avvengono questi due movimenti di scissione e di proiezioni all'esterno. Quando è l'istinto di morte ad essere proiettato all'esterno, questo investe l'oggetto esterno che, investito dalla pulsione di morte, diventa un oggetto persecutore, diventa un oggetto cattivo - il seno cattivo di cui parla la Klein -, è un oggetto persecutore che poi il bambino si trova a dover affrontare nel mondo esterno perché, dopo che l'ha investito di questa pulsione di morte, deve fare i conti con questo oggetto esterno che gli è diventato persecutore; se lo introietta per difendersene, si troverà a dover far fronte anche a un oggetto che lo minaccia dall'interno, e quindi dovrà far fronte a questa doppia minaccia che viene dall'esterno e che viene dall'interno. Nel contempo l'oggetto esterno, investito da questa pulsione di morte, viene frammentato e quindi trasformato in una serie di persecutori che dall'esterno attentano alla sicurezza del bambino. In più rimane una quota di pulsione di morte che non è stata proiettata e che produce all'interno l'aggressività con cui il bambino cercherà di difendersi dai nemici esterni. Questa situazione è però bilanciata dall'istinto di vita che pure è presente nel bambino, che pure viene proiettata all'esterno e quindi produce un oggetto buono esterno, produce anzi un oggetto ideale all'esterno e produce, rimanendo all'interno, la parte che rimane all'interno, produce invece la possibilità di sviluppare sentimenti amorosi e affettivi.
Questa situazione verrà superata a mano a mano che, in questi continui processi di scissione, di separazione tra buono e cattivo, si differenziano queste due categorie, nel bambino e nella realtà, di buono e cattivo, cioè si produce comunque all'interno dell'io questa prima differenziazione. Occorre poi che le esperienze positive siano in quantità maggiore, così dice la Klein, siano comunque prevalenti su quelle negative in modo che l'oggetto buono possa prevalere, possa essere integrato, e l'io possa a quel punto arrivare a tollerare - il tutto entro i primi sei mesi di vita - la coesistenza dell'oggetto buono e dell'oggetto cattivo, quindi a tollerare anche l'angoscia che gli viene prodotta da questo oggetto cattivo, a tollerare l'assenza dell'oggetto buono senza riempire questa assenza di proiezioni persecutorie e, se avviene questo, si supera la boa della psicosi, cioè si può accedere alla seconda fase, che è quella depressiva, avendo superato questa cerniera fra la fase schizoparanoide e la fase depressiva che è quella dove si può andare a instaurare la psicosi, se questo processo schizoparanoide non viene superato, e quindi se si forma un Super-io che mantiene queste rigide caratteristiche della fase schizoparanoide e non riesce a produrre un'unità e quella differenziazione per cui il mondo esterno può cominciare ad esistere.
La fase successiva è quella che porta verso la realtà, cioè la fase depressiva è quella attraverso cui la realtà esterna può incominciare a costituirsi nella sua unità e ad essere riconosciuta, cioè in cui il bambino può cominciare a riconoscere la madre non più come scissa in seno buono e seno cattivo ma come una unità intera completa, quindi come una persona buona e cattiva, ma unitaria. A questo punto però, cominciando a pensare la madre come separata da sé, il bambino comincia a poter temere di perderla, e quindi vive la fase depressiva proprio perché inizia a vivere una situazione di impotenza in quanto capisce la sua dipendenza dalla madre perché, riconoscendola come separata da sé, capisce che per lui è fondamentale, capisce di essere dipendente, capisce di non poterla trattenere perché è piccolo, e capisce che può correre il rischio di perderla, anche perché la madre esiste nella realtà con tutte sue altre attività e col legame che ha col padre, per esempio, e quindi con tutta una serie di interessi, anche, che la portano oltre il bambino. E quindi in questa fase depressiva matura la capacità affettiva anche dal punto di vista del dolore e dell'esperienza di perdita che in questa fase deve essere elaborata: si parla anche proprio già di un lutto, in questa prima fase. Attraverso tutto questo processo, però, quel Super-io iniziale, sadico, che veniva dato come innato - perché secondo Melania Klein esistono tutta una serie di oggetti interni che sono preverbali, sono innati, sono oggetti fantasmatici che non dipendono dal rapporto con la realtà ma preesistono al rapporto con la realtà -, attraverso questa precocissima esperienza depressiva, trova in qualche modo una sua perdita anche del tratto psicotico che lo contraddistingueva e quindi può essere poi affrontato nel passare verso la fase del Super-io che vi dicevo, quello che ha la caratteristica di normatore, di costruttore anche dei valori ideali, quello che collabora all'economia dell'individuo, che non è più una minaccia perché non è più un rappresentante dell'istinto di morte.
Ecco, io direi che mi fermerei qui. Ho fatto un discorso un po' lungo questa volta, probabilmente, perché, d'altro canto, i termini erano molti, anche le nozioni che ho introdotto erano parecchie, ma mi sembravano significative per introdurre, seppur dal punto di vista del discorso ordinario, alcuni accenni al tema dell'affettività che nell'ambito dell'anti(anti)sistema Assenza, si orienta verso strade molto più complesse. E quindi mi fermerei a questo punto.


Paolo Ferrari: Sì. Questo che ha illustrato Susanna è il mondo psicologico con cui d'altra parte abbiamo sempre a che fare, tutti i giorni, in campo clinico terapeutico. Quello che è interessante adesso, in questa fase della ricerca, è di costruire questi vari gradini
* di ciò che può essere il mondo psicologico, queste istanze che nascono attraverso il metodo dell'analisi psicologica, psicoanalitica, anche perché mi sembra interessante poter costruire una differenza. Cioè quello di cui io parlo in questo titolo, quel che dico è che il riconoscimento o l'assunzione dell'altro è differenza, ovvero arrivo a dire che è uno scarto, oppure che l'affettività è la via che può produrre l'introdursi o l'iniziare la possibilità di quello scarto dalla realtà dominante.
Quello che Susanna ha illustrato
* in una sintesi, diciamo, completa, interessante, relativa agli immensi studi intorno al tema, al fatto di come ci sia la formazione primaria di ciò che è Homo sapiens, è comunque l'introduzione a quello che è la realtà dominante. Ciò che per me è difficilissimo, e ogni giorno mi scontro con questo, è il fatto di dire come, data questa realtà dominante,*cioè data la realtà del pensiero, l'attività mentale, l'attività affettiva dominante normale, come da questa possa nascere o prodursi o distaccarsi ciò che è lo scarto da questo punto, cioè come possa prodursi una differenza.
Il sistema di cui io parlo, il sistema Assenza, è un anti(anti)sistema, cioè è un sistema che è ruotato fino al punto di non essere neanche più un sistema, cioè essere totalmente anti-sistema, di essere l'alterità. L'alterità, che cosa significa? Significa che questo sistema parla, se deve parlare, in una dimensione logica diversa e cioè, come dicevo prima, in una dimensione razionale, affettiva che è capace di includere l'altro sistema, il sistema precedente oppure, quando è portata al limite, di non includere nulla perché non gli necessita l'inclusione di qualche cosa. Ma d'altra parte io ritengo che in tutta questa condizione che prima è stata espressa, cioè la condizione in cui il bambino riesca a riconoscere la madre nella sua interezza e quindi nel seno buono e nel seno cattivo e quindi nella completezza e quindi sappia anche accettare l'assenza della madre, cioè la madre che nella sua interezza si assenta, che già in questo assentarsi ci sia il concetto che io poi ho ripreso, che ho sviluppato, che ho portato al massimo grado e che ho detto l'Assenza. L'Assenza è la capacità di accettare ciò che non è, ciò che, rispetto alla materia concreta che noi tutti percepiamo - quella visiva e tattile, gustativa, emozionale, sentimentale, delle emozioni normali -, è capace di essere altro da sé, cioè la materia che tutti quanti noi viviamo, abbiamo vissuto secondo questo schematismo e secondo questa risoluzione, questa accettazione della madre, la madre seno buono-seno cattivo... questa unità può essere la premessa per il fatto che esiste una realtà la quale realtà non è così concreta come fino adesso è stata pensata, cioè è assente. Ma assente non significa che è vuota, non significa che è diventata nulla di un nulla negativo, non significa che è precipitata nella morte distruttiva, significa soltanto che è diventata un'altra cosa, è diventata altrimenti, è diventata un altrimenti affettivo, chiamiamolo così.
* Che cosa significa nella nostra struttura terminologica, concettuale, affettiva? A questo punto, affettivo significa che, come dicevo prima, esiste la capacità di una relazione, ma in questa relazione, in questa capacità di relazione c'è la capacità di assumersi l'assenza della relazione, la quale assenza della relazione è a sua volta la capacità di assumersi totalmente la differenza. Cioè questa madre che è vista come intero, come seno buono-seno cattivo, ma nella sua interezza, è accettata come assente, è accettata come non essere, è accettata come altra.
Questo che cosa significa per il bambino, che cosa significherebbe? Significherebbe che, se lui accettasse la madre come assente, ma senza doversi appiccicare alla madre che se ne va, e quindi accettando di essere nulla nell'Assenza, il bambino sarebbe capace di incominciare a formulare quella specie di cellula mentale iniziale, di cui io parlo in Europa,
* in cui l'attività pensante incomincia ad essere capace di non dover formulare qualche cosa di concreto per dire quella cosa, di non dover formulare degli oggetti concreti dentro la mente per poter dire che si pensa, di poter accettare, comunque inizialmente, generalmente, il fatto della propria corporeità, della propria mente come una unità integra la quale non ha bisogno di essere confermata attraverso il rispecchiamento, il fatto di osservarsi, il fatto narcisistico.
E questo è soltanto una piccolissima tappa di tutto un processo complessissimo, di questa alterità, di questo vuoto, di questo vuoto affettivo di cui io parlo sempre. Allora l'affettività significa l'accettazione dell'altro nella sua massima alterità, ma l'altro è altro, l'altro non è un pezzo, non è un elemento proiettivo di sé, ma l'altro è talmente altro che è la totale differenza, che diventa esso stesso straniero nella sua integrità dell'estraneamente, dello straniero, e quindi diventa anche, in questa concettualizzazione generale, l'altro diventa anche la possibilità di assumere su di sé la morte, la quale morte è lo stato più diverso, più assente rispetto a quello che è la vita. Cioè, se realmente l'affettività, la capacità affettiva fosse sviluppata attraverso tutti questi vari passaggi, la morte - oppure thanatos, cioè tutte queste dimensioni della coazione a ripetere, della negazione della realtà, fino al fatto di cessare di vivere - diventerebbe uno stadio interno possibile, cioè uno stadio mentale, una cellula mentale possibile dello stesso soggetto il quale muore di questa alterità assumendosi l'estraneamento di questa alterità.
Questo è un passaggio limite, è un passaggio estremo, cioè, ripeto, la morte è... fino adesso gli uomini hanno vissuto la morte come antagonista della vita, tranne poi, in un certo senso, nelle varie religioni in cui la morte è come un passaggio verso uno stadio migliore; questo non mi interessa, in questo momento; m'interessa il fatto che la morte è comunque, rispetto alla struttura vitale, rispetto all'elemento della vita, il suo contrario, cioè è la cessazione di una vita quando il cervello cessa di pensare, cessa la sua attività. L'assunzione da parte del soggetto biologico Homo sapiens della sua cessazione, e quindi della sua cessazione mentale, e quindi dell'Assenza, di questo grado di Assenza che è la cessazione, sarebbe già uno stadio molto alto della sua affettività in quanto capace di assumersi l'altro, perché l'altro è la cessazione reale di sé.
Questo è un paradosso, un grandissimo paradosso, nel senso che la vita accetta la propria cessazione, accettando la propria cessazione accetta la propria perdita, accettando la propria perdita... significa nient'altro che l'estremo limite a cui di solito si perviene, anche nei vari stadi intermedi, come diceva prima Susanna: nel bambino, nella fase schizoparanoide in cui tutto il mondo è frammentario, c'è la fase depressiva che è il momento dell'unità, l'unitarietà; la fase depressiva che cosa significa? significa che il bambino, dopo aver espulso tutti questi vari elementi da dentro di sé, incomincia ad accettarli; accettandoli, che cosa fa? accetta una perdita, incomincia a vivere questo lutto; il lutto implica depressione; la depressione che cosa significa se non il fatto di una cessazione di questo elemento schizoparanoide, di questo elemento eccitatorio? l'elemento eccitatorio è quello che noi potremmo paragonare alla vita, la vita come elemento eccitatorio; nel momento stesso che accetta la depressione, accetta il fatto di perdere qualcosa; la morte è uno degli elementi della perdita. La morte poi della cessazione dell'attività pensante è la perdita massima di quello che è Homo sapiens. Se all'interno del sistema Homo sapiens si diventa capaci di accettare tutti questi elementi di perdita - come c'è stata la prima perdita che ha permesso la separazione del bambino dalla madre - c'è la possibilità per Homo sapiens di accedere a un livello in cui c'è la possibilità di accedere a una perdita la quale perdita significa la capacità di pensare altro - quel pensaaare della poesia che ho scritto -, di questo pensare che non è nient'altro che la materia che accetta di perdere sé e, perdendo sé, diventa altra da sé e diventa realmente materia capace di esistere, capace di essere in una dimensione più complessa. Perciò la dimensione affettiva, nel suo percorso, è anche questo, questa accettazione, questa differenza. In fin dei conti noi quando accettiamo l'altro come diverso da noi stessi, quando accettiamo lo straniero, quando accettiamo anche in questa situazione di globalizzazione del mondo, dell'universo... il fatto che vengono accettati tutti i diversi tipi di culture, i diversi tipi di scienze, i diversi tipi di religioni, questa accettazione, per un sistema che nasce fisso, abbastanza fisso, come quello di Homo sapiens che nasce dall'animale, significa in fin dei conti l'accettazione di un qualche cosa che è estraneo, cioè l'assunzione dentro di sé in un certo qual modo della morte di sé, perché significa cedere di sé il proprio egocentrismo, la propria fissità e muoversi invece verso l'altro; questo muoversi verso l'altro vuol dire l'assunzione dentro di sé, farsi carico dentro di sé della reale differenza e quindi, come dicevamo prima, assumere dentro di sé questo livello, questo livello dell'alterità che è quello che ho chiamato la morte astratta che non è la morte concreta, cioè che è l'astrazione della morte concreta: la morte che implica la cessazione dell'attività pensante, la quale cessazione dell'attività pensante diventa un ulteriore livello di capacità pensante, e questo è un altro paradosso: la cessazione di questa attività, di questo elemento esterno dell'attività pensante diventa al suo interno la capacità di pensare ancora di più, di pensare in altra dimensione, e cioè questo livello di Assenza.
Ora io so, mi rendo conto che spiego determinate cose che fanno parte di un altro sistema, cioè fanno parte di questo scarto,
* di questo passaggio in altro luogo. Devo mettere una fatica pazzesca per poter soltanto comunicare un livello altro, di questo tipo, partendo da tutte le condizioni che Homo sapiens ha studiato, da tutti questi elementi di perdita che ha già studiato. Nello stesso tempo m'immagino che cosa voglia dire anche per voi il passaggio in questa dimensione altra e che cosa significhi capire questo, nel senso che nessuno ne ha un'esperienza diretta, anche se tutti quanti hanno l'esperienza della perdita, della perdita come fatto positivo: tutti quanti hanno l'esperienza del passaggio edipico, cioè del fatto di rinunciare alla madre o rinunciare al padre per passare a una realtà esterna più complessa, alla norma della realtà, al distacco e quindi al riconoscimento di una differenza, dell'esistenza di una realtà che è comunque differente.
Voglio fare un'annotazione che dal punto di vista logico è carina, nel senso che noi diciamo sempre di una realtà oggettiva, che esiste una realtà oggettiva. Se quella che è la realtà oggettiva, quella che è fuori di noi fosse realmente oggettiva, fosse realmente oggettivata, cioè rispetto a un soggetto
* ci fosse una realtà oggettiva che fosse realmente oggettivata, fosse veramente diversa - l'oggettivazione che cosa vuol dire? vuol dire che il soggetto se ne sta buono lì, riconosce una differenza da sé, la realtà è diversa da sé, non proietta più sulla realtà -, se la realtà fosse veramente oggettivata, cioè esistesse soltanto questo oggetto esterno massimamente oggettivato, questo oggetto esterno, in quanto assunto come totalmente diverso dal soggetto, il soggetto non lo vedrebbe neanche più, non esisterebbe neanche più. Questo è un paradosso logico: se un soggetto riconosce una realtà, se questa realtà è diversa da sé, completamente diversa da sé, quindi non ci sono punti di analogia, questa realtà non esiste più, cioè entra nella distanza infinita, e questo è uno dei paradossi logici di cui si occupa anche la scienza, si occupa la logica, e quindi questo è interessante nel senso che se questa realtà, la realtà di cui parliamo sempre, fosse oggettivata in massimo grado, questa entrerebbe direttamente nell'Assenza; nel momento stesso che il soggetto però riconosce, è capace di relazionarsi comunque con questa realtà oggettivata, anche il soggetto diventa assente, e tutto questo diventa altro, diventa un altro mondo che è molto più vuoto, è molto più oggettivato. Quello che io dico, quello che io vivo normalmente, concretamente, è il fatto di una oggettivazione continua di una realtà molto più complessa, completamente distaccata, con cui sono in relazione, ma non sono in relazione coi meccanismi precedenti, con questi meccanismi dell'io senza quest'altro livello di assunzione dell'ulteriore livello affettivo che è quello dell'Assenza.
Risponderei a qualche domanda adesso.


Fabrizio Stangalini: Paolo, c'è - e se c'è quale - una relazione fra angoscia e Assenza?


Paolo Ferrari: Di quale angoscia parli?


Fabrizio Stangalini: Di quella citata da Susanna, quella originaria, dei primi mesi.


Paolo Ferrari: Susanna, se vuoi rispondere tu...


Susanna Verri: Sì, in effetti, io ho parlato di angoscia nella prospettiva della perdita e quindi la relazione è nel senso che, poiché nel discorso di cui ho parlato prima l'angoscia veniva definita come ho detto e veniva collegata a un senso di perdita con tutte le preoccupazioni che abbiamo visto, allora questa è una premessa, dal mio punto di vista, al fatto che un passo preliminare, seppure ancora nel sistema ordinario, verso tutto l'anti(anti)sistema Assenza, è l'assunzione della perdita, e quindi io direi che l'angoscia, data l'assunzione della perdita, si trasforma in altro, cioè non è più quell'angoscia che viene pensata in quei termini perché quella è un'angoscia che viene pensata come limite non valicabile in un certo senso, così mi sembra, e invece qui si tratta di andare oltre sia all'angoscia sia alla perdita con questo primo atto di assunzione che abbia tutta la connotazione dell'affettività di cui stiamo parlando.


Fabrizio Stangalini: Quindi, 'primo atto' vuol dire che, almeno dentro di noi, vuol dire che è inevitabile, non dico inevitabile ma quasi che è necessario, è necessario passare dall'angoscia, come è necessario probabilmente passare attraverso altri spazi; ma è uno spazio attraverso il quale bisogna passare prima di avere la percezione di potersi avvicinare all'Assenza.


Susanna Verri: Dall'angoscia non necessariamente, questo è il mio punto di vista. Pensavo: "Perché io parlo di questa angoscia?" e mi rispondevo queste cose e dicevo: "Secondo me dall'angoscia non necessariamente, dall'assunzione della perdita, sì". Da un'assunzione della perdita in un sistema tale per cui può anche essere che non produca più l'angoscia, date le premesse di questa affettività di cui stiamo parlando, senza togliere nulla al fatto doloroso della perdita.


Fabrizio Stangalini: L'angoscia è una deviazione? Cioè una deviazione della strada verso l'Assenza, allora?


Susanna Verri: Fa parte di un altro sistema.


Paolo Ferrari: Aspetta, voglio precisare questo, quello di cui per esempio stasera ho parlato nei termini dell'anti(anti)sistema Assenza, cioè della complessità di questo passaggio ulteriore, di questo scarto. Uno scarto che cosa vuol dire? che è uno scarto netto dalla realtà dominante, cioè dalla realtà che noi conosciamo.


Susanna Verri: Quello che volevo dire è che l'angoscia di cui ho parlato io è l'angoscia di un altro sistema e che non è detto quindi che l'assunzione della perdita non produca sentimenti negativi, ma sono altri sentimenti perché sono i sentimenti dell'anti(anti)sistema Assenza che sono altri rispetto a quelli del sistema che ho descritto prima.


Paolo Ferrari: Sì, ma quello che voglio precisare è il fatto che quando io parlo di questo scarto, in questa dimensione, cioè dell'assunzione appunto del nulla, l'assunzione della morte, l'assunzione della cellula mentale, in tutto questo, come diceva adesso Susanna, sta il fatto che qui non c'è più il problema di angoscia o non angoscia, non c'entra più niente, cioè questo è un altro sistema che parla un'altra lingua. Ora, io ne parlo, perché? perché, come io dico in questo titolo, l'affettività, la perdita, tutti questi elementi sono una premessa perché ci sia la probabilità che un altro sistema si possa formare, questo altro sistema si possa formare, ci sia questa probabilità che, a mio avviso, è abbastanza improbabile: ha la stessa improbabilità di come si è formato appunto il sistema Homo sapiens, cioè un'attività pensante, oppure la vita, la sostanza organica rispetto all'inorganica; c'è più o meno lo stesso tipo di improbabilità. Allora io dico: "Io vi illustro questo altro sistema". Questo altro sistema ha delle leggi sue proprie; io sto cercando di illustrare, di descrivere queste leggi, questi principi, queste conformità, queste coerenze, chiamiamole così. Queste, per combinazione, oppure per la loro realtà, per come sono configurate, hanno degli elementi di analogia o di possibilità di somiglianza che possono parlare la lingua - quando parlano una lingua, se devono parlare una lingua - che appartiene al vecchio sistema. L'angoscia per esempio appartiene al vecchio sistema, la perdita appartiene al vecchio sistema, la depressione appartiene al vecchio sistema, ma questo che cosa fa? Significa che noi abbiamo
* un sistema Assenza minore, chiamiamolo così, e l'altro sistema Assenza, AA, che è sistema maggiore, che in un certo senso hanno dei punti di relazione, ma altri punti di nessuna relazione. Che cosa possiamo dire? Che è la stessa differenza... quando per esempio diciamo che le scimmie hanno capacità di discriminare fra due colori o fra cinque colori, oppure che i cani hanno la capacità di un certo numero di concetti, è la stessa cosa che dire che questo sistema precedente, cioè il sistema Homo sapiens che usa una serie di elementi, una serie di concetti, può ricollegarsi a quest'altro sistema più complesso, più astratto, più vuoto attraverso determinati elementi in cui questa Assenza, questo luogo che possiamo chiamare Assenza si manifesta minimamente.
L'angoscia è uno di questi elementi: se nell'angoscia è accettata la perdita, siccome Assenza è vicina alla perdita, noi possiamo dire che in questo sistema, in questo caso, c'è un elemento affettivo, un elemento affettivo che assomiglia in qualche modo a questo [Assenza], come diciamo che la capacità di concettualizzare dei cani assomiglia a quella degli umani, ma i cani hanno trenta concetti, gli umani ne hanno un po' di più, ma nel senso che è un sistema diverso. Anche qui noi abbiamo il fatto che nel sistema inferiore Assenza, chiamiamolo così, nel sistema psicologico, c'è la perdita, c'è l'accettazione, c'è l'affetto... questi concetti, questi sistemi hanno dentro di sé questo elemento, sono come piccole cellule di Assenza, ma questo è un altro gradino,
* è un altro sistema che parla un'altra lingua, però ha per analogia il fatto che...Perché questa si chiama Assenza? Assenza vuol dire che è la perdita totale, che vuol dire che è l'assunzione totale; questa, l'assunzione totale, nel sistema più piccolo non c'è ancora, a meno che non avvenga uno scarto totale. Allora, nel sistema più piccolo diciamo Assenza questo questo questo, cioè l'affettività è una capacità d'Assenza nel senso che io mi ritiro e accetto di più l'altro, e questo è un'Assenza perché il fatto di ritirarsi è comunque un'Assenza, pur essendo presente; però arrivare a quest'altro gradino di cui parlavo, in tutto questo altro sistema significa un salto, un salto comunque in cui, perché avvenga questo salto, deve essere concepito il fatto che il cervello stesso incominci ad accettare la sua perdita, la sua perdita totale, incominci ad accettare la sua cessazione: la vita incomincia ad accettare la sua cessazione, allora questo produce lo scarto, cioè scarto dalla realtà dominante. Lo chiamo 'scarto dalla realtà dominante' perché è una totale rivoluzione, una rivoluzione più grande di così... nel senso che la realtà dominante è tutto quello che abbiamo fatto noi. L'affettività, l'assunzione dell'affettività è già comunque una grande rivoluzione rispetto alla realtà dominante, perché la realtà affettiva, l'affettività vera e propria ben poche persone hanno la capacità di esercitarla, hanno capacità di assumersela. Se la società, se la realtà potesse essere capace di assumersi un'affettività complessa, capace di distacco, già ci sarebbe la possibilità di uno spostamento verso quella possibilità di scarto, cioè la specie si assumerebbe un nuovo gradino tale per cui potrebbe aderire a uno scarto rispetto a se stessa, a sé specie, perché l'affettività è reale con il distacco. Ben poco esiste ancora nella realtà umana, anche se la realtà umana avrebbe possibilità per quel tipo di formazione in cui l'io si forma attraverso la perdita di sé, e quindi attraverso l'angoscia.


Renata Ranieri: Nell'accettazione della perdita di sé, quindi della propria morte, che è quello che permette di arrivare a quel famoso livello di scarto, in questo passaggio esiste un'azione della volontà? Inoltre, quando c'è questo passaggio esiste la coscienza di questo passaggio? Infine, qual è l'ultimo stadio che prelude a quel passaggio per arrivare allo scarto? Se esiste.


Paolo Ferrari: Ma, innanzitutto non so se sia il caso di entrare nei particolari della produzione di questo scarto. Quello su cui volevo rimanere stasera era più il fatto della dimensione affettiva stante, la quale permette ed è uno strumento anticipatore dello scarto. Non voglio entrare tanto nella dimensione di questo scarto perché comunque, se non c'è questa dimensione affettiva pre e quindi questa realizzazione in questa dimensione affettiva, non ci può essere quell'altra perché c'è la perdita.
Io credo che, per rispondere a questa domanda, il fatto è che se non c'è da parte del soggetto la capacità di conoscere, comunque, la differenza e quindi un'oggettivazione di realtà e quindi la capacità di una coscienza rispetto a questa realtà oggettiva e quindi già il distacco da sé e quindi il riconoscimento dell'altro e quindi questa capacità di relazionarsi verso l'altro e quindi questa capacità affettiva, questa assunzione, non ci può essere questo tipo di avvicinamento a questo scarto. Oppure potrebbe esserci questo avvicinamento per diverse vie che possono essere quelle di un sistema più complesso, di un sistema biologico il quale va per le sue strade, cioè di un sistema evoluzionistico, il quale sistema evoluzionistico ha prodotto il passaggio dalla scimmia a Homo sapiens mica perché la scimmia lo volesse, perché questo è nato per i cavoli suoi, è andato per determinate strade secondo determinate leggi di adattamento o leggi di coerenza interna del sistema. Perciò quello che è importante, secondo me, è il fatto che per l'assunzione di questa perdita occorre innanzitutto, in generale, il riconoscimento della differenza, cioè il riconoscimento di una realtà oggettiva quindi, come dicevi, del fatto che esista il massimo livello di coscienza, e il massimo livello è il fatto che si vive in pieno sé stessi, il fatto della perdita di sé. La perdita di sé significa il fatto che il sé sia acquisito totalmente. Prima dell'acquisizione del sé totalmente, quindi della capacità di assumersi, della relazione verso l'altro e quindi dell'oggettivazione della realtà e quindi del distacco, e quindi del distacco dalla madre e quindi della capacità di assumersi dentro di sé l'assenza, quindi dell'assenza della madre, quindi della capacità di maturazione affettiva, prima dell'acquisizione di tutto questo non c'è la perdita di sé che porta a quell'altro livello, ma la perdita di sé che è di solito l'elemento psicotico che non c'entra assolutamente niente, cioè il disturbo mentale, non è la mente che incomincia a far silenzio e ad accettare la cessazione di sé nel perfetto silenzio.
Uno dei gradini di tutto questo passaggio è il fatto che la mente... quando io parlo della cessazione di sé significa che la mente è capace di imporsi e di imporre il massimo silenzio e incominciare a porre il vuoto, il vuoto di sé e di tutta la propria corporeità, il vuoto mentale, il vuoto astratto; in questo vuoto incomincia a riconoscere una realtà più vuota e quindi incomincia questa dialettica fra questo vuoto e il vuoto della realtà, e quindi questo vuoto è il fatto che il cervello a poco a poco si svuota, ma si svuota nel massimo grado della coscienza del vuoto e non nel senso del vuoto che è quello schizofrenico e cioè che è quello regressivo. Questo è il vuoto della comprensione massima e quindi della consapevolezza. Cioè quello cui bisogna stare attenti quando dico queste cose è il fatto che ci sono due elementi, è il fatto che ognuno poi rielabora certi elementi anche secondo quelli che sono i propri schemi, è il fatto che l'assunzione del nulla o del vuoto o della differenza significa che la mente ha imparato a tacere, che il corpo ha imparato a tacere, che tutto ha imparato a essere totalmente silenzioso, per cui non è la dissoluzione di sé, è la massima accettazione di sé, comprensione di sé, e poi lo svuotamento di sé, e quindi significa quello che dicono nella gnosi, oppure nel buddismo: il raggiungimento dell'atarassia, del nirvana o del vuoto cosciente in cui, nel momento stesso del vuoto cosciente, la coscienza può essere anche abbandonata perché c'è un altro livello, ma mai prima. Cioè teniamo sempre conto del fatto che la coscienza, il linguaggio, tutti questi elementi sono il massimo livello a cui Homo sapiens è giunto, e non può perderli poiché questi gli serviranno moltissimo nel passaggio in questa possibilità di scarto, cioè gli serviranno la comprensione, la conoscenza, l'affetto, la razionalità, la razionalità allargata di cui sto parlando, perché se no si va a finire dentro il mondo magico, dentro il mondo inconscio, il quale mondo inconscio non passerà mai da nessuna parte, anzi regredirà verso l'animalità, ma non [andrà] verso un livello più alto dell'intelletto, perché questo è comunque un livello più alto dell'intelletto.


Renata Ranieri: Scusa, ma non so se ho capito. Ma questo processo di far tacere dentro di sé, quello che dicevi, è un percorso che uno può programmare con la volontà di raggiungerlo, oppure esiste un programma che bisogna attuare, oppure avviene naturalmente se tu fai un altro percorso di conoscenza? Non so se mi sono spiegata.


Paolo Ferrari: Sì, sì, ho capito ma, appunto, non avevo risposto prima perché quello che io voglio illustrare sono dei temi teorici in questo teorema che entri a far parte poi della persona, cioè è un teorema attivo che smuova il cervello delle persone, smuova la coscienza, ma non voglio entrare nella questione perché se no qui se io
* entro nel tema della volontà o non-volontà entriamo in temi che fanno parte, per esempio, di quello che potrebbe rispondere... se io fossi, per esempio, un maestro Zen, direi: "Nel momento stesso in cui tu tacerai, la volontà sarà fatta". Vuol dire che nel momento stesso in cui la tua mente tace tutto è fatto, ma questo non significa che io debba fare questo, non lo so, non me ne importa niente. Io adesso sto illustrando questo tema complesso generale, poi quali siano le strade... se no dobbiamo passare da questa complessità che io sto illustrando, cioè quello che sto cercando di fare è questo sforzo estremo di far comprendere questo tema che è ultra-umano, ma partendo dalla psicoanalisi, dalla biologia, dall'evoluzionismo, dallo Zen, da tutte queste dimensioni; ma poi non posso riprendere tutto questo e ridurlo di nuovo alla sua decima parte. Io sto facendo questo discorso, l'altro discorso diventa troppo personalistico, cioè non mi interessa la pratica concreta immediata, m'interessa far comprendere un tema di una complessità, di un interesse estremo ed è per quello che non son voluto entrare sul fatto della volontà o non-volontà.


Nadia Morandotti: Ma, io volevo chiedere... è nel riconoscimento della diversità che si crea il vuoto, però c'è anche il discorso magari, ecco, sociale, per esempio, che sarebbe la tolleranza. Cioè la tolleranza significa anche riconoscere la diversità dell'altro e allora volevo sapere, secondo te, come si... non sono capace di formulare la domanda, spero che...


Paolo Ferrari: Sì, ho capito. Infatti l'affettività di cui io parlo significa tolleranza, significa molto di più della tolleranza. Per questo io dico 'assunzione su di sé', perché quello della tolleranza mi è sempre sembrato un concetto cattolico, cattolico nel senso di un mondo che è un po' chiuso, cioè la tolleranza implica il fatto che... l'individuo che parla con sé dice: "Guarda come sono bravo ché sono tollerante". E' un po' il discorso farisaico dei Vangeli. La tolleranza secondo me è un termine... se io dico: "Io tollero questa cosa", dico: "Ma guarda come son bravo che tollero questa cosa, Gesù mi ricompenserà perché sono tollerante"... ma io invece non so niente, se c'è questa persona questa persona è tale e quale a me e io non devo mica tollerarla, anzi io devo togliermi dai piedi perché lei esista, ma non perché io tollero; nel momento stesso che io dico: "Io tollero", c'è di nuovo questo ego che si impone. Capisci che cosa voglio dire? Quindi l'affettività di cui io parlo è molto di più di questa tolleranza, cioè è un tema più aperto nel senso che io mi faccio carico, assumo su di me quello che è l'altro, e quindi quelli che sono i suoi bisogni, fino all'estremo limite: mi assumo anche la sua morte, la mia morte, cioè la differenza. Spesso io vedo in giro questa tolleranza, questa tolleranza è ancora un io il quale si premia perché è tollerante; invece l'affettività, l'amore sono molto di più che la tolleranza. E' un campo più alto, più aperto il fatto di dire: "Io non tollero nessuno, non debbo tollerare, è ovvio che sia così". Il fatto che esista l'altro... ma è anche ovvio, anche perché io dico, al di là di tutti i temi che le religioni hanno trattato, le filosofie hanno trattato, che il sistema Homo sapiens, se non è capace di riconoscere l'altro, non è capace di diventare affettivo, sta male. Cioè è quello che vedevamo prima nello sviluppo del bambino: se il bambino non riconosce l'assenza della madre, non riconosce la madre intera, sta male, diventa ammalato, diventa psicotico, diventa schizofrenico. Perciò il sistema umano... perché io dico, come scienziato... perché le religioni continuano a parlare di questo, del fatto appunto dell'affetto dell'amore della tolleranza? Perché non fanno nient'altro che confermare un dato che poi è scientifico, cioè è un dato di fatto che se il sistema umano non fosse capace di accettare l'altro sarebbe un sistema che si sterilizza, che muore, tant'è vero che soltanto in quanto è capace di accettare l'altro e quindi di assumersi l'altro è capace di fare un ulteriore passaggio in cui il sistema diventa ancora più complesso. Cioè, l'accettazione dell'altro è un fatto fisiologico: siccome il sistema umano è un sistema complesso, l'accetteazione dell'altro gli rende ancora più complesso il sistema; se non l'accetta, vuol dire che si chiude dentro se stesso, ma nel momento stesso in cui si è chiuso dentro di sé è finito, è diventato sterile, è morto, non ha potuto svilupparsi. Già nel concetto stesso di complessità c'è il fatto che il sistema umano è complesso, cioè vuol dire che son tanti punti e tutti questi punti sono uno diverso dall'altro e hanno la capacità di relazionarsi uno con l'altro; se il sistema umano non è capace di tollerare quell'altro ovvero di accettarlo realmente, è un sistema che è finito. Infatti - ed è quello che vediamo nel mondo, nell'universo, in questa globalizzazione -, nel momento stesso in cui gli uomini non saranno capaci di accettare quegli altri uomini, tutto quanto finisce, oppure incomincian le guerre l'uno con l'altro.


Lisetta Carmi: Paolo, posso dare una testimonianza di quello che è successo a me in questi pochi mesi, o no?


Paolo Ferrari: Ma, le testimonianze personali...


Lisetta Carmi: non vanno bene?


Paolo Ferrari: No, perché io parlo di sistemi complessi. Sarebbe metodologicamente errato. Poi, magari, un giorno ci arriveremo.


Lisetta Carmi: Va bene.


Paolo Ferrari: E' quello su cui sto insistendo. Il fatto è che metodologicamente noi dobbiamo a mano a mano sviluppare queste capacità affettive mentali, appunto; se uno ritorna poi a sé, in un certo senso è un richiudere il sistema, invece io voglio che il sistema sia aperto. Ed è difficile mantenere continuamente questo sistema così aperto, perché uno si perde e dice: "Dove vado?", allora deve ritornare in un certo senso a sé.


Lisetta Carmi: Certo.


Paolo Ferrari: Va be'. Io avrei finito. Ci vediamo...?


Anna Lafranconi: Il 10 aprile.


Paolo Ferrari: Il 10 aprile. Questa sera saltiamo la musica perché abbiamo fatto tardi e sono un po' stanco. Arrivederci.