“C’è
stato un tempo, lungo qualche decina di migliaia di anni, in cui vivevano
animali del tutto simili agli umani contemporanei, in particolare con
un cervello assolutamente simile al nostro, che, tuttavia, non si comportavano
come si comportano gli animali della stessa specie oggigiorno; in particolare
animali che, verosimilmente, non si ponevano domande sull’amore,
o sulla morte, o su Dio. Animali con un corpo umano, ma con una mente
non umana – una mente, probabilmente, ancora basata su meccanismi
conoscitivi incentrati esclusivamente sulla percezione.”
(F.Cimatti, Perché gli animali parlano? in Lettera internazionale,
N. 80, 2004)
Il linguaggio e l’assenza di cosa.
Il linguaggio astratto – espressione peculiare di Homo sapiens
– costituisce il medium di relazione e di adattamento per eccellenza,
in mancanza di oggetto concreto. Esso dà origine a un mondo che
è più prossimo a quell’invenzione del sistema uomo
che più avvicina questo organismo vivente-pensante a una dimensione
prossima al nulla o all’assenza (di cosa) – rispetto a ogni
organismo precedente. E’ probabile che un’ulteriore evoluzione
del linguaggio – e perciò del sistema Homo in generale
– conduca all’inverarsi d’un universo costituito dalla
sua stessa mancanza, un universo assente ricco d’un linguaggio
che segnala ad ogni suo tratto un niente fecondo. Il linguaggio, con
la sua capacità di attrarre a sé e trasformare in-nientità
l’oggetto-cosa – avrà sostituito allora definitivamente
– e vittoriosamente – l’oggetto concreto, traccia
residua e malcerta, sintomo d’una supposta incongruenza sistemica
dell’attuale fase evoluzionistica; mancato scarto d’un’arcaica
origine animale non tralasciata.
(P. F. in N. Ferrari, Passi, sospensioni, balzi e capriole dell’evoluzione)
Analisi
in-assenza
La cura della mente (e del corpo): riunire in un’unità
asistemica a più punti focali le discontinuità che sono
alla base di processi mentali consci e inconsci, dando loro una ragione
d’essere – o non-essere.
(P.F. in S. Verri, L’Asistema in-Assenza e la cura, ObarraO, Milano,
2003)
“Chiamiamo
Asistema Assenza quel particolare sistema complesso che si viene a costituire
con l’accoppiamento (Accoppiamento-Raddoppio dematerializzante
in-Assenza) del sistema noto realtà con l’attività-passività
in-Assenza. (…) La nuova organizzazione di realtà che si
viene a costituire è rappresentabile, secondo un modello mutuato
dalle Scienze della complessità, come un particolare sistema
complesso autoorganizzantesi sui margini del caos, costantemente in
oscillazione, aperto a più piani, a più direzioni, fluttuante
nel tempo e nello spazio secondo una particolare costante di grado 0
– sotto il valore di soglia comune d’interazione con l’oggetto
realtà; costante di dematerializzazione”.
(S. Verri, op.cit.,p.21
e 23)
Contra il cognitivismo
Il pensiero (in-Assenza) è atto-disposizione in piena libertà
– senza necessità di contenuto di cose, parole e mezzi
di relazione finalizzati. A ciò rinunciando il soggetto agente
s’è affrancato dall’essere il misero e triste contabile
a servizio dell’esigenza d’un oggetto signore del mondo
(esso tale era e così finora s’è confermato) pur
non avendo né meriti né qualità particolari, adeguato
a siffatta posizione di privilegio di cui fin dal principio s’era
impossessato.
(P. F., Aforismi in-Assenza, p. 22 N.30, 1997-2005)
Il rumore della città
S’era talmente invaghita di quell’idea – forse soltanto
un’immagine della mente in cui era rappresentata una sorta di
spirale madreperlacea. Una strana figura che aveva intravvisto come
fermaglio d’una collanina indossata da una persona in cui s’era
imbattuta per caso un giorno durante il passeggio quotidiano.
Al fine di liberarsi di quell’impressione che non la lasciava
neppure per un istante, aveva provato a battere la testa prima contro
il muro, poi sul pavimento della sua stanza fatta a mattonelle a forma
di poligoni esagonali in cui si mostrava l’alternarsi del bianco
e del nero. Aveva successivamente pregato un suo amico di stimolarle
la fronte con un martelletto, di quelli che servono per misurare i riflessi.
Dapprima dalla parte gommosa. Poi con la parte cromata dell’impugnatura,
lucida così da sembrare della stessa sostanza d’uno specchio
limpidissimo. Infine era scesa nel giardino della sua casa, un giardino
disposto verso il Nord, leggermente piegato a Ovest, selvatico da un
lato e molto curato per un’altra sua parte. Era il tramonto. Era
rimasta lì tra le fronde fino a notte avanzata. Aveva ululato
alla luna che stava crescendo. I lupi l’avevano ascoltata, ed
erano giunti fin lì a riprenderla. L’avevano accolta nel
loro gruppo come una volta, e non l’avevano più lasciata
andar via: almeno così dai più fu ritenuto. Lei era tornata
tra loro, da dove era partita un giorno vagando su e giù dai
colli di quella contrada. Dalla loro cima si coglieva, sotto, nella
vallata, fondo e continuo il rumore della città che si estendeva
ampia e disseminata, attenuando il suo rimescolio di linea in linea,
fino a quella dell’orizzonte più lontano dove infine scompariva
alla vista umana.
(Paolo Ferrari,2005)