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[Il Seminario ha inizio con l'ascolto della registrazione di un pezzo di musica composta da Paolo Ferrari per l'Astratta Commedia*]

 

Luciano Eletti: "Appena al di sopra, o al di sotto, ovvero un infinitesimo passo al di qua, al di là del reale a cui il pensiero e la vita e il mondo hanno corrispondenza, non c'è nulla. Non quel nulla che è vuoto e spaventoso contro cui tutti invariabilmente prima o poi s'imbattono; c'è una sorta di nulla, da poco scoperto, un nuovo generato, un universo increato cui non urge concretarsi, esistere, finire. E' un universo che non sarà mai come ce lo siamo immaginato... Non è una cosa e non è la perdita di quella; non accumula, non ingombra; vive e muore - né vive, né muore (un mistero); ma è fisso, nulla stabilisce dapprima. Non gli occorre l'esistere, non ha necessità d'essere pensato. E' il luogo d'un nulla compiuto, un 'buon infinito' più grande d'ogni infinito. Qui non ci sono né terra, né mare, né luce, né ombra, né cielo, né stelle. Non uomini, non piante, non animali: qui è cessato il morire della cosa concreta. Non ci sono né essere, né avere; non c'è invidia, non c'è possesso, non odio, neppure l'amore non consapevole.

Qui sta il distacco, il vuoto più ampio oltre il dolore; è la parola oltre se stessa, il discorso oltre l'impronta che lascia, oltre il suo stesso significare. S'invera l'Altro dove cessa il morire; si fa e sparisce l'Assenza, ricca d'umore e di pietà. Colma dI sé, del suo dire e contraddire diversamente dal corpo-cervello. Il dolore e la materia senza il potere dell'affermare, l'impronta del prevaricare. La specie Homo è finita fuori di sé attratta dal gioco sapiente del vuoto assente, del libero e acuto domandare".*

Andrea Moroni:" Fortunati voi....*

E' un nulla

in cui ci compiacciamo,

sobri, attenti, talvolta dolenti,

ma felici e orgogliosi,

non affatto timorosi,

spesso vividi e gioiosi,

fuori dei soliti paludamenti".*

Paolo Ferrari: Abbiamo dato inizio all'ultimo Seminario con il Prologo della Commedia.

L'Astratta Commedia porta, nel suo originare, questo suono lontano della foresta intrecciato da suoni elettronici, in una sorta di circolarità ritorna su se stessa e poi si disperde. E lì incomincia il canto, una sorta di profezia, la quale profezia anch'essa si perde, si disperde, come questa monetina, e si disperde con il gioco, il senso ludico della filastrocca che è una sorta... che potrebbe essere una canzoncina cantata da un coretto di Sanremo, tanto da far sì che questo Prologo in cui è raccontato il nirvana o un analogo occidentale del nirvana orientale, possa anch'esso terminare in pace. E' anche la voce che ha in sé l'elemento profetico ma nello stesso tempo la melanconia del fatto che questa persona, questa a-persona, questa essenza-assenza torna per dire la sua parola in una lingua sconosciuta, in una lingua che ha al suo interno questo mancare, questo nirvana come mancante, come luogo che non è e in cui il non essere è sottolineato, eppure questa sottolineatura immediatamente si perde attraverso il senso scanzonato della filastrocca.

Nella messa in scena della Commedia, che avverrà in dicembre, questo punto, questa filastrocca dovrà essere sottolineata ancora più decisamente, come se fosse... come presentandosi come un elemento di totale superficialità di qualsiasi tipo di gioco, di giocosità, ma anche di disinteresse di gioco del mondo, del gioco mondano, proprio per produrre quello sfasamento e quello spaesamento, quello straniamento che è implicito nel linguaggio di cui ci occupiamo.

Il tema di stasera è un tema di grandissima complessità, anche di grande emozione, anche se questa emozione in campo assente, nell'ambito del tema orientale che noi abbiamo introdotto, l'emozione dovrebbe in un certo senso tacere, ma c'è comunque subito alle spalle questo tipo di canzone che permette il silenzio. E, d'altra parte, l'emozione di cui si parla in-Assenza è un'emozione che non si porta appresso nessun sentimento, è un'emozione priva di sentimento. La parola sentimento in italiano è interessante perché si porta dietro il sentire e il mento, e il mentire. Infatti io dico, ogni volta che qualcuno mi parla di un sentimento, a meno che non sia una persona di grande maturità, [dico] che questo sta mentendo. Cioè avere veramente un sentimento è una cosa di grande livello, sia conoscitivo sia affettivo; ma allora il sentimento deve imparare a tacere, l'emozione deve imparare a farsi vuota, a farsi silenziosa, ma con ciò essere in una particolare condizione tale per cui un'impronta, anche di vuoto, possa essere lasciata.

E allora, in questo modo, siamo entrati già in medias res e questo titolo di Buddhità e Assenza è un titolo che annuncia un complesso sistema-asistema, un modo di porre due universi, e di disporli in modo che possano essere osservati. In realtà, probabilmente, al fondo di questa fessurazione che entrambi gli universi tentano di fare, non c'è alcun tipo di rapporto se non il tipo di rapporto per distacco di cui in-Assenza abbiamo spesso parlato. E cioè, dove c'è il massimo livello della differenza, il massimo livello di distacco, allora lì c'è la possibilità di un alcunché di relativo, di relazionale, di possibile, di confrontabile, di accettabile.

Come avete visto, in questo Prologo continuano a esserci elementi che sembrano all'apparenza contraddirsi: il fatto di disporsi e il fatto di mancare; il fatto di porre una luce e questa luce che viene meno; il fatto di esporre un alcunché e contemporaneamente il venir meno del discorso; l'accettazione del discorso, perché comunque è un discorso, è un logos, ma contemporaneamente la contraddizione per cui questo logos impara a cessare. Un luogo della cessazione, il luogo che nella Commedia è detto il luogo a-mentale, la a-mente.

A questo proposito leggevo, proprio dieci minuti fa, una storia Zen che ha una qualche analogia anche se, appunto, è disposta in un universo totalmente differente. E, comunque, io mi sono servito, per descrivere vari passaggi di questo nuovo a-sistema, di molta terminologia, di molte idee che nascevano... nella mia fase di formazione, intorno ai vent'anni, andavo cercando su testi di ogni genere - da testi buddhisti, a testi induisti, a testi oltre quelli della cultura occidentale, testi esoterici, testi mistici, testi filosofici in generale - un linguaggio, un aiuto, un ausilio tale per cui questo mancare, che continuava a formarsi dentro la mia mente tanto che diventava a-mente, potesse avere un suo sostrato possibile, una sua modalità di discorso nel mondo occidentale - io come soggetto occidentale -, che potesse starci, che potesse dire qualche cosa nel momento stesso in cui aveva la possibilità di contraddirsi: contraddirsi nel suo centro, nel suo cuore, cioè il venir meno, il mancare. Allora l'apprendere anche una scrittura tale per cui questa scrittura potesse essere scritta e contemporaneamente sparire alla mente di chi legge, in modo che la mente di chi legge diventasse una a-mente nel momento stesso in cui incontrasse una scrittura la quale scrittura è una a-scrittura, ed è quella del racconto che fra poco pubblicheremo.

Altra ragione, anche, di questo titolo è perché Susanna potesse studiare le fonti del buddhismo che a me interessavano - le fonti antiche -, lei come studiosa - rigorosa, metodica, profonda -, e che riuscisse a dare, nelle sue poche parole, nello spazio che sa ritagliarsi, un mondo, un universo da cui trarre, estrarre una serie - per me - d'informazioni adatte per proseguire su questa strada della conoscenza e del discorso occidentale intrecciato continuamente da un discorso della differenza. Anche perché, a mano a mano che lei studiava il Canone Buddhista* e studiava anche i testi antichi, a me interessava il fatto che lei studiasse perché, avendo io questa possibilità di astrarre o estrarre direttamente dal processo dell'altro - di alcuni altri - nel frattempo potevo introdurre nel mio sistema, direttamente dal suo studio, quello che lei stava studiando senza far la fatica di dover studiare.

E comunque questa storia Zen che io non conoscevo - non me la ricordavo - dice: La mente è di pietra, ed è una sorta di mente a-mente, mente concreta non concreta. "Hoghen" - io pronuncio così, non so come si pronunci bene -, "un insegnante cinese di Zen, viveva tutto solo in un piccolo tempio di campagna. Un giorno arrivarono quattro monaci girovaghi e gli chiesero se potevano accendere un fuoco nel suo cortile per scaldarsi. Mentre stavano preparando la legna, Hoghen li sentì discutere sulla soggettività e sull'oggettività. Andò loro accanto e disse: 'Ecco questa grossa pietra. Secondo voi è dentro o fuori dalla vostra mente?' Uno dei monaci rispose: 'Dal punto di vista del buddhismo tutto è un'oggettivazione della mente, perciò direi che la pietra è nella mia mente'. 'Devi sentirti la testa molto pesante' osservò Hoghen 'se te ne vai in giro portandoti nella mente una pietra come questa'".

Ora, nei miei termini, invece che di oggettivazione protremmo parlare di proiezione, potremmo parlare del fatto che noi diciamo che la realtà, dal punto di vista in-Assenza, continua a oscillare, e in questa oscillazione è continuamente vuota - almeno su uno dei piani - ovvero porta con sé la nientità, il nulla, il perdersi, il mancare, il non essere. E mi piaceva molto questa storiella in cui c'è questa pietra che è localizzata all'interno della mente, perché la mente è quella che costruisce un mondo e che rende falsamente permanente una realtà secondo i dettami della cultura buddhista, e nello stesso tempo [c'è] il maestro che è capace, con un elemento di grandissima semplicità, di far vedere come questa pietra non può stare nella mente perché è un oggetto concreto. E quindi questa aporia, questa contraddizione, questa impossibilità, questa impossibilità di formare un concetto o di formare una credenza. E quindi attraverso una descrizione che è fatta di elementi anche molto semplici, naturali: questo fuoco che si accende nella sera, questi monaci che discutono fra loro, semplicemente, eppure si pongono dei temi grandissimi, di grandissima complessità, come l'oggettivazione della realtà, come l'oggetto interno e l'oggetto esterno - la Klein sull'oggetto interno e l'oggetto esterno ha costruito un sistema di immensa complessità - che qui viene smontato e posto, così, semplicemente e non semplicisticamente, attraverso una sorta di battuta, di smontare una credenza. E, d'altra parte, è questo che dovrebbe fare la canzoncina che sentivamo prima di fronte a questa descrizione di questo nirvana, di questo nulla, e di questo, anche, assentarsi del nulla.

Direi che di questo tema della Buddhità, comunque di questa altra origine del pensiero, questo altro annullamento, questo altro nulla, nullità, nientità, ne dovremo parlare a lungo, e [direi] che potremmo anche parlarne, se sarà il caso, nei Seminari del prossimo anno.

Adesso, relativamente a questa nientità, voglio fare un pezzo di musica, un Raddoppio di un pezzo che ho fatto - indicandolo, narrandolo, anche questo, come una sorta di riflessione, di ritorno ma non di specchiamento - e che appartiene a una serie di pezzi che sto facendo per pianoforte solo, che si chiamano Le astuzie del silenzio. Questo silenzio ritorna, torna, inziga, produce il silenzio e poi nello stesso tempo però produce anche il rumore del silenzio. E questo rumore del silenzio è quello che tento continuamente di far tacere, di produrre il fatto... cioè questo silenzio ha l'astuzia perché si pone... nel momento stesso che il silenzio si pone e si dispone, in quel mentre esso vuole esistere, vuole farsi tale, e invece deve imparare a essere in-Assenza, a cessare, cioè è il silenzio che cessa di per se stesso. E quindi ci sono tutte queste astuzie e questo gioco, che è anche il gioco dei Maestri Zen oppure comunque di certe dottrine del vuoto orientale oppure comunque di questo distacco, di questo assentarsi, di questo mancare.

Ora faccio questo pezzo che è molto occidentale, come tutti i miei pezzi. E sono continuamente tentato da questa astuzia del silenzio che ritorna, che vuol parlare, di questo moto, di questi armonici che farò giocare. Ed è un pezzo il cui Raddoppio non è semplice, cioè produce una grossa, una certa complessità nella a-mente.

 

[Paolo Ferrari raddoppia al pianoforte il pezzo Le astuzie della  mente. Durata 7' circa]

 

Paolo Ferrari: Susanna, a te il discorso.

Susanna Verri: Il tema di questa sera, Buddhità e Assenza, mi è sembrato che potesse essere pensato - pensato è un po' eccessivo perché appunto è un tema estremamente complesso quindi, diciamo, ha iniziato a essere pensato -, che si potesse iniziare a pensarlo attraverso tutto quello che è stato il lavoro dei Seminari che abbiamo fatto quest'anno, in particolare dell'ultimo Seminario che era quello sulla differenza.

E dunque, allora, da questo punto di vista mi sono posta ad osservare - attraverso alcuni testi, come poi vi dirò - alcuni dei primi aspetti fondamentali, alcune delle linee, anche storiche, di origine di questo grande ambito del pensiero umano. E in particolare mi è interessato andare a scoprire, andare a riprendere, diciamo, come il buddhismo sia sorto, sia iniziato - nel VI secolo a. C., quando iniziava il declino di quelle che sono state definite le grandi correnti mistico-religiose dell'India antica -, e come si sia posizionato tra i grandi movimenti di pensiero - e religiosi anche, comunque -, tra le grandi masse di pensiero, diciamo, che erano da una parte la Grecia antica e dall'altra la Cina.

Quindi sorse nell'India, nel cuore dell'India, nel VI secolo, l'idea di una razionalità che potesse fornire un nuovo modo di pensare e di vivere l'esperienza del mondo e della realtà. Quindi, al decadere delle antiche religioni e correnti mistiche, nasce l'idea di una razionalità, di un uomo razionale che possa iniziare a pensare la realtà o, diciamo, il mondo esterno, e al cui centro, al centro dell'esperienza del mondo, di questa esperienza nuova, razionale, sta la coscienza: la coscienza dell'essere umano diventa lo strumento primo di rapporto col mondo esterno. E questo essere umano, al centro di questo nuovo movimento, è responsabile in prima persona di tutta quella che è la sua vita, non solo ma anche delle vite precedenti perché è immerso in un ciclo di esistenze in cui da ogni sua azione deriva quello che sarà il suo destino. E in più questo uomo del buddhismo ha la condizione per cui non ha nessuna esperienza trascendente a cui potersi appigliare, non ha nessuna divinità - differentemente quindi da quella che era stata l'esperienza delle religioni precedenti o coeve -, e quindi ha soltanto questo suo strumento razionale - la meditazione, le tecniche che può cercare d'imparare, le varie esperienze che può condurre attraverso l'educazione della sua coscienza - per poter trovare la via alla liberazione, quella via alla liberazione dal peso di tutte queste vite che si porta dietro, cioè - diranno poi i testi buddhisti, dirà il Buddha storico stesso - dal peso karmatico delle esistenze precedenti, perché tutto quello che è stato vissuto nelle vite precedenti si proietta come energia karmatica sulle vite successive, in un flusso, in un fluire ininterrotto che è fonte di dolore - per cui l'uomo buddhista sta in questo dolore del peso della sua vita, del suo ciclo karmatico dell'esistenza, sta a contatto con la morte, con la malattia, con la vecchiaia. E il buddhismo cerca, propone una via di liberazione da questo dolore, e la propone attraverso la via che conduce al nirvana, cioè all'estinzione di tutto questo carico di dolore, e a quello che può consentire poi la cessazione di questo carico che viene via via, invece, condotto.

Il Buddha quindi nasce come Buddha storico, come personaggio storico - nel VI secolo -, principe guerriero - perché appartenente ad una famiglia di guerrieri - che a un certo punto della sua vita abbandona la moglie, il figlio, la vita che aveva e inizia a fare l'asceta mendicante. E poi si avvia ad una formazione che dura molti anni, seguendo la dottrina di vari maestri perché impara da ciascun maestro quello che quel maestro gli può insegnare, e poi passa a un altro maestro, a un altro maestro ancora. Impara vari metodi, varie tecniche di meditazione per azzerare la coscienza e quindi per produrre il vuoto nella coscienza, [ciò] che poi serve ad arrivare - come spiegherà lui stesso nei suoi discorsi - all'illuminazione, quindi a questo evento che produce l'azzeramento di cui dicevamo prima, che produce l'accesso al nirvana. E dunque segue tutto questo iter, attraverso i maestri. Poi per sei anni pratica degli esercizi di un'ascesi strettissima, di privazioni corporali, dell'ascesi più stretta che esisteva allora in India. E poi riconoscerà di aver sbagliato perché riconoscerà che queste privazioni così forti, in realtà, anziché avvicinarlo all'estinzione, avevano prodotto, ancora più fortemente, le fantasie, noi diremmo - in termini buddhisti probabilmente è diverso -, avevano riacceso ancor più quella brama che lui cercava di estinguere con privazioni così rigorose.

E infatti - dopo tutte queste vicende, dopo queste peregrinazioni - alla fine, quando, dopo aver avuto l'illuminazione, quindi dopo aver avuto le rivelazioni - di cui diremo - il Buddha inizia la sua predicazione, in uno dei suoi primi discorsi parlerà di una via di mezzo - e quindi inizierà quello che è il suo discorso sulla messa in moto della ruota della legge in cui delinea le prime, principali caratteristiche della sua dottrina -, dirà come siano inutili queste privazioni eccessive, come possano essere dannose, come sia altrettanto dannoso il cedere ai sensi, e quindi come si debba cercare quello che lui chiama una via di mezzo, di cui poi in questo discorso detta le regole. E il fine è quello di giungere al nirvana, e quindi di giungere a questo vuoto assoluto in cui si arresta il flusso delle proiezioni karmatiche sull'esistenza e in cui c'è quindi questa cessazione del dolore.

Il Buddha storico ha tutte queste vicende - molte di più di queste, naturalmente -, ha questa grande esperienza di predicazione che per più dei quaranta, cinquant'anni succzssivi della sua vita lo condurrà attraverso tutta l'India a portare la sua parola e a cercare quindi di portare questo messaggio di liberazione dal dolore - che è poi uno dei punti che mi hanno interessato di più in questo primo contatto col buddhismo perché ho visto questa prima risposta che si può leggere in questa nascita del buddhismo: cioè il buddhismo sorge, a quanto pare, per dare una risposta a questo carico del dolore umano.

E questo mi serve, mi è servito, in contrappunto, per fare un salto di circa duemila anni e più - duemilaseicento anni, diciamo, più o meno, se non sbaglio i conti -, per arrivare ai giorni nostri e per arrivare a quelli che sono stati i primi scritti in-Assenza di Paolo Ferrari ma, oltre ai primi scritti, a Europa,* il poema del '94 che aveva proprio come sottotitolo Poema in soccorso di vita e morte, di veglia e sonno in eccesso e non coscienti dell'umana specie tanto immatura e così poco felice.

Quindi, in questo caso, nasceva - prima di Europa ancora, coi "foglietti", quindi prima ancora del '94, con l'89, quindi col "lungo racconto", successivo, di cui abbiamo distribuito un capitolo, e prima col testo dei "foglietti" di cui abbiamo, anche stasera, distribuito due brevi scritti - questa proposizione o questa apertura a un pensare nuovo che ha in sé un vuoto nuovo, di nuovo genere, perché diversa è la sua radice e provenienza, la contestualizzazione occidentale dell'ambito e dell'epoca in cui noi ci troviamo, la dimensione del nulla in-Assenza che noi scopriamo e che andiamo spiegando e anche esplorando in questi Seminari come una dimensione di specie, quindi non solo individuale, quindi come un discorso che noi andiamo articolando su più registri, in cui il registro individuale è uno, ma non è neppure il più importante. Così come questi nostri stessi Seminari sono come una punta avanzata di un discorso che inizia a entrare nella realtà, che ha iniziato appunto con i "foglietti" in cui veniva proposto questo pensar nuovo, questo pensar vuoto dove, dall'inizio, la scommessa era quella di proporre una condizione di realtà che era accoppiata a una nuova attività mentale di Homo sapiens; quindi discorso di specie e non d'individuo, quindi discorso evolutivo e quindi di cervello in evoluzione e quindi di posizione diversa per la specie. Cioè, nel "poema vuoto", che è poi Europa - nel '94 - si parla di una specie che si affaccia a una soglia diversa, cioè la specie è abstracta perché compie un passo evolutivo ponendo una differenza rispetto al precedente legame, [rispetto] al ciclo di vita e di morte che era stato più prossimo a quello dell'animale. E così, attraverso la categoria del distacco, attraverso quello che si dice in una A-meditazione che abbiamo distribuito questa sera, la specie ha questa possibilità, Homo sapiens ha questa possibilità - e quindi ogni individuo, all'interno di questo - di scoprire un nuovo tipo di libertà che è data dalla dimensione in-Assenza perché, attraverso questa categoria del distacco dal legame di vita e di morte precedente, è possibile che l'antico pensiero di specie sia sostituito da una categoria maggiormente assente di pensare, cioè da un pensare che sia più capace di vivere in-Assenza di sé, del suo corpo, in-differenza da sé - come dicevamo nel Seminario scorso e in alcuni dei Seminari di quest'anno -, e quindi trovi, in questa differenza da sé, in questa capacità di uscita da sé, in questa alterità entro sé e fuori di sé con cui può relazionarsi, una dimensione di affettività capace di sparire essa stessa come affettività come l'abbiamo conosciuta prima, e quindi un pensare nuovo, vuoto, che ha in sé una capacità di relazione e una capacità di affettività come apertura all'altro che possiamo dire moderna o attuale o, addirittura ancora, del nuovo millennio.

Mi fermerei qua.

Luciano Eletti: E' importante dire che di Buddha storicamente ce n'é stato uno - anche dal punto di vista storico come lo intendiamo noi nell'Occidente -, ma di buddhismi ce ne sono tanti.

Io ipotizzo che il monaco ch'an della storiella appartenga alla prima fase del buddhismo cinese. Direi che, in seguito, il monaco gli avrebbe fatto cadere la pietra sulla testa e gli avrebbe chiesto se era dentro o fuori la sua testa. E questo è sintomatico di un modo di cogliere il buddhismo che i cinesi hanno fatto loro, e per cui ci sono buddhismi molto diversi. Tanto è vero che Granet, nel suo Il pensiero cinese,* afferma che il buddhismo ha più ricevuto dal taoismo di quanto gli abbia dato, ché la potenza della cultura cinese di assorbire l'esterno era grandiosa.

A parte questo il buddhismo si era già scisso nei due grandi rami del Piccolo e Grande veicolo che si distinguevano soprattutto, potremmo dire noi, per il tema della compassione; cioè per il buddhismo hinayana, quello del Piccolo veicolo, quello che conta è raggiungere la buddhità, cioè liberarsi da questo ciclo delle nascite; mentre, dal punto di vista del Grande veicolo, mahayana, quello che conta, invece, è rinunciare a questa fuoriuscita dalle catene dell'essere, dalla ruota delle nascite, per aiutare gli altri a salvarsi; e quindi non semplicemente uscirsene beati e lasciare gli altri nelle peste. Questa è, a grandi linee, la differenza. I due rami del buddhismo hanno avuto anche sviluppi geografici e storici ben diversi, per cui hanno avuto conformazioni piuttosto diverse.

Però interessava, tenendo presente anche La morte assente che è il testo che sarà pubblicato da O barra O tra non molto, un altro tipo di buddhismo. Faccio solo un piccolo excursus sul rapporto Cina-buddhismo, nel senso che quello che interessa il rapporto Occidente-Oriente in maniera notevole è che credo che, nel tentativo di traduzione di testi già così complessi in cinese, in una lingua completamente diversa da quella del pali o del sanscrito e nella quale mancava una qualsiasi metafisica - si parlava prima del buddhismo quasi con toni socratici -, i traduttori siano stati agevolati dalla comune assenza del dio. Il buddhismo, la 'religione' senza dio, nasce nel mondo indiano in cui gli dei sono centinaia di milioni, le sfaccettature del divino sono incommensurabili, mentre, storicamente parlando, la Cina sembra essere l'unica grande cultura priva del dio come lo concepiamo noi, come lo concepivano in India: non ha mai saputo cosa fosse.

Ma la cosa interessantissima che andrebbe studiata da noi occidentali è appunto quel lavorio di traduzione pazzesco che è successo per secoli tra dotti cinesi e buddhisti indiani, perché le difficoltà di traduzione secondo me sono veramente spaventose e possono insegnare parecchio - però questa è una questione che forse interessa i soci di O barra O, e quindi torno indietro.

Il buddhismo che mi interessava è un altro ancora, ed è quello tibetano che prende influsso dal buddhismo mahayana; poi si diffonderà in questa forma lamaista in Mongolia e in Cina, e assumerà anche lì forme ancora diverse. Per cui già il buddhismo cinese andrebbe distinto in periodi, per cui nella fase più recente, più vicina a noi, ha una forma lamaista e non di tipo indiano.

Quello che mi interessava del buddhismo tibetano è in rapporto al libro de La morte assente* e al tema del morire in quello che è un testo famoso, che si è pubblicato in Occidente nel '27, che è il cosiddetto Libro tibetano dei morti* - che fa venire in mente il libro egizio dei morti, che è tutt'altra faccenda però. Il titolo originale è Bardo Thödol,  ovveroLa grande liberazione dall'esistenza intermedia attraverso l'ascolto: titolo stranissimo. E ci si trovano parecchi elementi curiosi da mettere in parallelo, e poi da staccare dal testo de La morte assente. Per esempio, una delle cose curiose è che quando uno muore in realtà non muore, perché è condannato a reincarnarsi - tranne i fortunati che hanno meditato bene nella vita. E quindi c'è questo Bardo, appunto, che è semplicemente un'esistenza intermedia, che può durare da un istante a quarantanove giorni, a un anno - nei casi particolari di esseri posseduti da enti demoniaci -, in cui occorre liberarsi - e questa è sì un'idea tipicamente buddhista - dal fatto che le cose fuori della nostra mente esistono; e quindi occorre saper passare a questa fase intermedia in cui accade di tutto, dalle cose più orrende e inenarrabili a visioni magnifiche mai viste; occorre saper transitare, per cui occorre saper morire in quel tratto per non reincarnarsi o reincarnarsi in una condizione migliore per poi tentare, nella vita successiva, di fuoriuscire da questa seccatura tremenda che è la rinascita. E questo come può avvenire? Attraverso l'ascolto. Che cosa vuol dire attraverso l'ascolto? Perché, chiaramente, chi ha grandi mezzi non ha bisogno di questo Bardo Thödol, non ne ha bisogno perché l'ha già meditato in vita; chi invece è in condizioni intermedie deve prepararsi a morire e, aiutato da un lama che gli sussurra all'orecchio il Bardo, è in grado di rendersi conto che tutto è nella sua mente ed è di questa mente che deve liberarsi per fuoriuscire dal samsara.

E questo ascolto per noi non avrebbe nessun senso perché sarebbe un ascolto puramente fonico, verbale o al massimo musicale. E invece questo testo ha quelle connotazioni che abbiamo cercato di studiare col termine del gesto, è la musica che ha in sé l'atto. Io mi sono scorso tre edizioni di questo libro famoso senza aver avuto modo di studiarlo per bene. C'è l'edizione Einaudi, c'è l'edizione dell'Astrolabio, c'è quella classica della U.T.E.T. curata da uno dei più grandi tibetologi del '900, il nostro Giuseppe Tucci, che fa un'esposizione chiarissima; e lui dice a un certo punto che gli studenti buddhisti leggevano di continuo i testi sacri ma non capivano nulla; a loro non importava non capire nulla perché le parole del Buddha erano tali che superavano il problema del logos che noi ci porremmo e che lì non esiste.

Paolo Ferrari: Del significato.

Luciano Eletti: Per cui leggono in continuazione senza capir nulla di quello che hanno letto e che non sarebbero in grado di discriminare. Ma questo agisce. E allora si può capire perché, in questa esistenza intermedia in cui uno deve decidere se morire veramente, l'ascolto di questo parlare del lama lo liberi; per cui c'è questa liberazione, questo stato intermedio in cui si è morti, definitivamente morti, ma non ci si è ancora incarnati; e in questo spazio critico, molto critico, in cui avvengono cose spaventose anche, occorre cogliere quello che noi potremmo chiamare il gesto della parola o della musica.

Paolo Ferrari: Che però dev'essere vuota.

Luciano Eletti: Che dev'essere vuota.

A questo proposito, visto che sono in condizioni un po' strane,* mi piaceva leggere questo, che io al tempo avevo sottovalutato, questa introduzione di Ugo Leonzio, dell'Einaudi, che mette bene in luce, invece, adesso, questo aspetto che a noi interessa. Questa pratica del Pova - che è la pratica del Bardo per eccellenza - "salva con il potere della parola, che è ciò che si avvicina di più al vuoto. Il mantra, che non possiede più alcun valore semantico, non è suono né immagine né simbolo, ma il luogo dove questi tre elementi si fondono e si annullano creando un varco nell'invisibile e onnipresente Vacuità... Il potere del Bardo Thödol è immenso perché le sue parole sono la manifestazione del corpo verbale del Buddha che è pura Vacuità. Ascoltarlo significa risvegliare l'energia primordiale dello spirito e riconoscere che ogni fenomeno è l'effetto di quanto è stato immaginato nel corso della vita".

Adesso leggo solo un ultimo pezzo: "Una delle qualità specifiche del Bardo Thödol è la sua essenza musicale, una musicalità interna, densa, evocativa, che riconduce all'origine primordiale della parola. Questo sussurrare misericordioso del lama all'orecchio del morto apre una via nascosta in quell'immaginario inviolabile che è il Vuoto... la parola mantrica, pura forma del suono capace di germinare anche di fronte al più indicibile dei segreti, cioè la morte, il mutare, lo svanire, il migrare. E' una musica fatta di omissioni che nulla ha da spartire con ciò che l'orecchio può riconoscere in una scala tonale o atonale. Qui è il suono ripetuto, il veicolo immobile che conduce la mente, suono che per essere regolare infrange ogni regola e si apre a quel sublime disordine che è il silenzio".

Allora, riprendiamo il tema del morire di cui si parla in diversi punti de La morte assente* - qui torno occidentale - e di cui in parte avevamo già parlato anche altre volte... per esempio un tema che c'è ne La morte assente è il fatto che la morte astratta è una morte cosciente, cioè quello che Homo sapiens non ha mai imparato è morire con coscienza, come se la morte si portasse dietro ancora una scia della vita e non sappia veramente morire. A parte il tema, che può sembrare simile, del passaggio che Paolo descrive in questo libro e che fa riecheggiare alla lontana quello che è descritto nel Bardo - adesso arrivo al punto... ecco, per esempio, nel testo si dice che la morte è questo luogo di trasformazione, e dovrebbe essere appunto un morire astratto che è oltre la manifestazione concreta del corpo che abbandona la vita. Allora questo ci sembra strano quasi come ci sembra strano questo ascolto del lama del Bardo. Però, in effetti, se la nostra morte, in fondo, è ancora quella dell'animale che non ha consapevolezza di morire, allora chiaramente è un'esperienza che non ci tocca o che ci sembra venire da un altro mondo. Invece pensiamo, appunto, che l'evoluzione ha creato il pensare "in vita", però si è fermata a metà e non ha mai saputo pensare "in morte". Nel testo infatti si dice: "Non c'è spazio per la vita cosciente che muore, non v'è funzione adeguata alla coscienza che ha terminato d'essere dipendente dallo stato di vita".

Allora, una cosa che fa pensare è se siamo veramente convinti che il pensare sia una funzione esclusivamente vitale, voglio dire che si pensi la morte, che non c'è - almeno così si dice nel testo - solo come preparazione al morire (come meditatio mortis), e quindi l'uomo ricade nella morte animale; secondo il Bardo ricade in condizioni di reincarnazione non certo favorevoli a ritrovare poi la via del nirvana, per cui in questo morire c'è un arrestarsi del cammino evolutivo che ha inventato la coscienza - in senso lato come intendeva il buddhismo ("coscienza" è una parola molto rischiosa) -, e però si è fermato sulla soglia della vita; dopodiché la coscienza non si sa che fine faccia, ma non solo non si sa che fine faccia, ma non si sa come questa possa pensare il finire. E di questo problema, che non è inventato qui, è testimonianza la storia delle grandi religioni e di come abbiano sempre tematizzato il passaggio del morire.

Allora sembra, appunto, che una morte - questo lo deduco dal testo - che manca di questa morte consapevole, cosciente, astratta, sia una morte autistica che continua a rimandarsi la figura del morire che qui, come nel Bardo, dà queste immagini della mente che non corrispondono a questa realtà che è vuota, per cui nel Bardo accadono cose inenarrabili e spaventose, ma da queste ci si può liberare essendo consapevoli che sono una produzione della mente, non stanno altro che nella mente, e da lì dipende la liberazione.

Altro tema che si può ritrovare nel testo di Paolo e che mi piace legare all'osservazione di Tucci, è il fatto che il testo si pone in un contesto occidentale. Già nel buddhismo hinayana non contava tanto spiegarsi il perché, l'importante era fuoriuscire da questa ruota della vita. Anche nel buddhismo mahayana quello che conta è cogliere questa vacuità della voce del Buddha. All'uomo occidentale ciò non basta. Per questo dicevo prima che la coscienza è termine rischioso, perché in ambito greco la coscienza è: "che cos'è questo?". Per cui questa è una discriminante grandiosa rispetto a qualsiasi coscienza buddhista. Socrate dice: "Che cos'è questo?", per cui discrimina e vuole ottenere una risposta a una domanda che tenda poi a costruire qualcosa che prima non c'era. E Paolo nel suo testo si pone qui dentro, cioè con la necessità di interrogarsi su ciò che avviene. E c'è un punto in cui è molto esplicito. Se non lo trovo, ve lo salto... Lo salto.

E c'è difatti un altro punto, invece, in cui Paolo si pone tra Oriente e Occidente, da uomo kantiano, per così dire. E' quando accenna alla rigidità della scienza occidentale che è definita spesso inutile e di un rigore mal posto, rigidità che dal nostro versante è facile da intravedere quando la curiosità socratica viene meno, e il chiedersi "che cos'è questo" si chiude e c'è una forma di allontanamento da ciò che non rientra nel canone. Ma questa critica è per amore della scienza, per poter dire "che cos'è questo?", per porlo in luce, discriminarlo, quindi cogliere le differenze - e questo discriminare in ambito orientale è impensabile - con una compassione, possiamo dire in senso molto neutro - e questa sì è buddhista, invece -, che è quella di chiedersi "che cos'è questo?", "come avviene questo passaggio?", "come è potuto avvenire che questa forma di pensare in-Assenza sia venuta finalmente alla luce del percorso evolutivo?", e che è anche l'aiutare chi invece non ha avuto quell'esperienza ad attivarsi e attivarla per poterla cogliere. E questo avvicina al Grande veicolo buddhista.

La fine sfugge, ma c'era, e riguardava il...

Paolo Ferrari: Se tu non impari a finire, non impari a morire e non impari a vivere, perché questo finire è il cessare.

Allora, volevo, appunto, riprendere questo punto: il fatto che Luciano ha colto alcuni punti, e su altri è andato intorno perché è molto difficile, d'altra parte, è molto difficile, per una mente occidentale soprattutto - credo anche per una mente orientale -, cogliere questo punto in-Assenza, che cosa significhi questo morire in-Assenza. Cioè, il fatto è che uno dei punti cruciali - che Luciano ha colto, da un certo punto di vista, e che è quello che noi abbiamo poi portato avanti in questi anni, anche in questo ultimo anno - è che l'attività pensante non nasce così, per caso, da un elemento vitale o vitalistico per cui a un certo punto la vita inventa il pensiero. E' che c'è tutta un'organizzazione tale per cui nel sistema biologico-evoluzionistico il sistema biologico impara a cessare, i sistemi incominciano ad organizzarsi e imparano [a cessare] - almeno in una delle descrizioni possibili della struttura del mondo, dell'universo, dell'universo biologico -, gli elementi primitivi e le strutture biologiche primitive imparano un certo tipo di suddivisione, e questa suddivisione ammette al proprio interno il fatto di finire. [Data] questa suddivisione cellulare, questo controllo che le cellule operano una sull'altra, che i sistemi incominciano ad operare uno sull'altro accettando di finire ovvero - secondo Ameisen - accettando di suicidarsi per produrre un sistema più complesso, quello che noi vediamo è il fatto che - e questa è una scoperta del mondo occidentale - la morte entra prepotentemente dentro la vita. Entrando prepotentemente dentro la vita, dice: "Qui ci sono", e in questo "ci sono" e in questo porsi "che cos'è questo?" o "io sono in questo", incomincia a produrre tutto lo sviluppo di tutti i sistemi biologici superiori - per cui i sistemi complessi che sono quelli dell'organizzazione delle piante, degli animali e poi degli umani - attraverso un processo che ha ammesso al suo interno un finire, ha ammesso al suo interno un cessare, ha ammesso al suo interno una tendenza di tutto il sistema a suicidarsi, a meno che la morte venga bloccata, come dicevamo due Seminari fa.

Allora questo significa che tutto questo discorso, che tutto questo ambito che sono andato esplorando - ma non esplorando perché me lo son chiesto, ma esplorando perché me lo son trovato, in mezzo al corpo, nelle gambe, nella testa, nei piedi -, dove tutto quanto si svuotava, tutto quanto diventava vuoto, ma non vuoto vacuo oppure di insensibilità oppure il non rapporto, ma vuoto che produceva dei rapporti molto più complessi, molto più relativi a dei problemi di distanza, di vicinanza, di legami attraverso il distacco, di legami attraverso lo spazio, attraverso il tempo, attraverso tutta una serie di condizioni nuove spazio-temporali che andavo esplorando - anche dal punto di vista della fisica, del metodo, della matematica, delle logiche diverse -, questo vuoto che si stava formando e quindi questa cessazione che stava avvenendo di un percorso vitale o vitalistico che era ancora legato a un sistema animale, questo produceva una differenza - io l'ho chiamata differenza - o in-differenza: questo è un termine che ho preso dal buddhismo o che mi son ritrovato fra le mani, non so neanche se sono andato a prenderlo dal buddhismo oppure me lo son trovato in questo processo di svuotamento, di annientamento di certi legami antichi biologici nel formarsi di un'altra condizione, un altro stato che io poi ho chiamato "in-Assenza". Guarda caso, l'ho chiamato "Assenza", e assenza si avvicina all'elemento della nientità oppure anche alla parola "assenza" stessa, parola orientale che porta in sé questo [elemento], però si porta anche la parola occidentale che significa una lacuna, che significa una mancanza, che significa un venir meno.

Quello che manca nella cultura orientale, o che almeno non ho trovato, è l'idea del mancare. Il mancare, invece, è della cultura che io sto portando, cioè il fatto che il sistema, se manca, se è capace di questa mancanza, se è capace del suo venir meno, del suo essere in errore, in un verto senso, è capace allora anche di attivare un pensiero. Attivare un pensiero vuol dire che è mancante. Mancante, che cosa vuol dire? Vuol dire che viene meno, cioè che muore di un pezzo. Allora significa che se tutto il sistema impara a morire, e cioè a svuotarsi, tutto il sistema - da quello che è l'esperienza che è stato l'arco di tutto questo tipo di ciclo di pensiero, di interruzione di certi cicli vita-morte - implica che il sistema nervoso centrale è adatto al fatto di cessare di sé, di produrre questa cessazione: una cessazione che è già stata prodotta, ha prodotto il pensare e la coscienza. Certamente è pericoloso parlare di questo sostantivo, però la coscienza, da questo punto di vista, significa il fatto che è un'attività - io la potrei definire come attività vitale - nella quale è subentrato un livello di morte, la morte è entrata dentro al sistema di vita, è una morte che è diventata astratta perché non è una morte concreta, non è che è un pezzo di vita che è morto soltanto fisicamente, ma è un pezzo di vita che ha perso un pezzo del suo vitalismo, un pezzo della sua pulsione, un pezzo - chiamiamolo in termini orientali o in termini anche occidentali, freudiani -, un pezzo del suo desiderio. Allora ha accettato un elemento del morire, del venir meno, ha accettato questa morte astratta. Se la morte astratta, come nella Commedia, viene posta e trasforma tutto quanto, il soggetto, il soggetto storico muore del suo essere - come soggetto - Homo  sapiens, e, in questo tipo di esperienza che io conosco, diventa questa alterità in quanto "io è morto".

Ma questo non è tanto la meditazione sulla morte, questa è una meditazione sulla vita perché, nello stesso tempo, è il fatto che la morte non possa essere pensata, cioè perché "in morte" non si possa, in un certo senso, essere pensanti in quanto "in morte", comunque, è questo oggetto concreto che è venuto morendo per cui la coscienza è comunque un pezzo di morte che si è messa a pensare - se vogliamo chiamarla così. Adesso non voglio dire che i morti parlano o pensano, perché è lontanissimo dalle mie idee, cioè sto parlando di sistemi complessi e cioè sto parlando del fatto che - da tutte le cessazioni che son nate nell'universo da quando è nata la vita, dall'inizio, dalle prime cellule, dai primi sistemi unicellulari elementari, col subentrare del controllo della vita e della morte e quindi con tutte queste morti che sono subentrate - questo morire, questo cessare ha prodotto una materia tale che ha prodotto poi, a sua volta, la neocorteccia, la quale neocorteccia si è messa a pensare. E cioè questo mistero del pensiero, questo mistero della coscienza non è nient'altro che un morire di un sistema biologico che era capace soltanto di moltiplicarsi e di vivere in una moltiplicazione, anche eccessiva; ha accettato un pezzo della sua morte, ha accettato il morire; in questa accettazione, in questo prendere dentro, è nato questo altro processo nuovo che si chiama coscienza, che si chiama attività pensante.

Allora, se questa attività pensante è capace di tutto questo, è capace anche di pensare il proprio morire, è capace di pensare il proprio cessare: allora la morte diventa un'altra cosa, diventa un'alterità, anche questa. Non è che la morte possa essere pensata, quella morte lì che noi siamo abituati a pensare, ma una morte ulteriore, come abbiam visto, una morte in altri termini, in altri linguaggi, in linguaggi probabilmente sconosciuti, quelli che io continuo a tentare, che anche in questo momento sto tentando, anche usando tutti i termini della scienza occidentale oppure i termini del buddhismo, i termini anche, probabilmente, della meditazione o di altre vie.

Al fondo di tutto questo c'è questo nulla. Questo nulla noi l'abbiamo sempre associato alla morte, ma la morte ha questo nulla quando la morte diventa bucata, cioè quando la coscienza è capace di fare un ulteriore passaggio per cui diventa bucata nel mezzo, cessa di essere questo elemento, in questo cessare diventa questa alterità, e questa alterità è un altro processo di morte: è probabilmente quel passaggio in cui, nel Bardo, c'è la possibilità della cessazione, e quindi c'è il venir meno, la possibilità del non "ancora in campo", nella cultura orientale, del dover reinvestirsi, e quindi di ritrovare un altro corpo, un'altra identità in cui continuare questo ciclo perché la coscienza non ha imparato a morire, cioè a introdurre il suo morire, il suo cessare.

E questo è quello che, tradotto in Occidente, tradotto in questi termini, quello che significa la cessazione, quello che significa il nirvana. Questa cessazione, molto probabilmente - da quello che è la mia esperienza, da quello che è l'esperienza generale -, quello che porta il buddhismo - e il mondo occidentale non lo conosce da questo punto di vista, se non probabilmente alcuni mistici, però in maniera relativa -, questo cessare porta con sé questo elemento, questo nirvana che è questa alterità: questa alterità è una cessazione, diciamo così, straordinaria, non ordinaria. Ed è un campo non ordinario che ha questa intensità non emozionale, affettiva, non emozionale su un campo diverso in cui c'è, punto cruciale, il finire, la cessazione.

La cessazione è quella che ha generato, probabilmente, tutto il processo biologico-evoluzionistico. Questa è la mia ipotesi di fondo che sostengo da... negli ultimi dieci anni.

Adesso voglio suonare con Lisetta perché se no qui facciamo notte inoltrata.

Questo è un pezzo completamente diverso da quello precedente: è, anche questo, una transizione in mezzo, tra la vita e la morte, come anche accennava Lisetta che ha studiato questo pezzo, completamente diverso dall'altro. Si rifà un po' al pezzo di Janàcek che abbiamo suonato l'altra volta, [inerente] a questo passaggio. Anche questo, probabilmente, è un passaggio attraverso questa cessazione del legame vita-morte, e introduce anche questo altro elemento, che diceva prima Susanna, o Luciano, di questa voce, di questa voce diversa che contiene in sé anche questa specie di disordine del silenzio. E mi piace quest'idea del disordine del silenzio, perché è una musica che ha questo ordine disordinato nell'ambito di un silenzio che è capace di cessare.

 

[Paolo Ferrari raddoppia, al pianoforte, il pezzo da lui composto e suonato da Lisetta Carmi, pure al pianoforte. Durata 6' circa]

 

Paolo Ferrari: Allora, come dicevo, questo pezzo andava bene perché erano anche queste parole della transizione, queste parole del silenzio, silenzio altro, perché il silenzio vero è quello che può anche parlare, può parlare qualsiasi linguaggio, basta che non sia il linguaggio del vecchio sistema che ha bisogno di dire qualcosa. Questo è un silenzio che è capace di cessare della propria organizzazione di silenzio. E [questo] è un pezzo che indica una transizione e che si introduce in una transizione e che, come dicevo prima, ha la possibilità di produrre questo altro livello di attività cosciente che è capace della mancanza di sé, se è ascoltato in maniera giusta, che poi in realtà è la misura di un ascolto anche buono, profondo, di tipo musicale.

Mi è parso interessante finire i Seminari di quest'anno anche per questo condurre questa transizione, questo produrre questa transizione, questo produrre questo mancare, questo introdurre un'altra volta questo morire-mancare, come se il morire potesse essere il mancare del morire e il morire che è il suo stesso mancare, e la coscienza che ha dentro di sé il suo morire e, in quanto ha dentro di sé il suo morire, e cioè la vita ha dentro di sé il suo morire, produce coscienza. La coscienza, quanto più è capace di cessare ma di non perdere della sua qualità ma di acquisire - nel cessare del suo sistema biologico antico di provenienza animale -, di trovare la sua capacità di cessazione, la sua cessazione significa la qualità di un sistema, di una coscienza più complessa, cioè di questo livello a-mentale, questo stadio in-Assenza di cui stiamo parlando.

Con questo concludo l'anno.

Volevo portare i saluti di Enzo Correale. Dovevamo fare il ballo, Danzando l'altro, col "passo a due", di un nuovo pezzo che gli avevo mandato. Non sono potuti venire a Milano. Tra le altre cose due ballerine hanno avuto un incidente grave in autostrada; adesso si stanno riprendendo. E' probabile che per l'inaugurazione, a metà novembre, faremo questo ballo che doveva essere fatto quest'anno. Comunque il giorno 26 questo balletto verrà presentato a Napoli, al Teatro Agusteo. Quindi la prima sarà là e la seconda la faremo qui.

Arrivederci a tutti.

 



* P. Ferrari, Astratta Commedia, Campanotto Editore, Pasian di Prato (Ud), 1998.

* Ibidem, Prologo. Voce fuori campo.

* Ibidem, Prologo, Seconda voce fuori campo di A in B in C.

* Ibidem, Prologo, Seconda voce fuori campo.

* Canone Buddhista. Discorsi brevi, a cura di P. Filippani-Ronconi, U.T.E.T., Torino, 1968.

* P. Ferrari, Europa o l'Assenza, Campanotto Editore, Udine, 1994.

* M. Granet, Il pensiero cinese, 1934.

* P. Ferrari, La morte assente. La nascita dell'Altro: reportage d'altro mondo in forma di diario a-scientifico e racconto a-metafisico (in corso di pubblicazione).

* Bardo Thödol (Grande ascolto di liberazione nello stato intermedio). Libro tibetano dei morti, ed. Tucci 1949, ed. Fremantle-Trungpa 1975, ed. Leonzio 1996.

* L'oratore è appena tornato dai funerali del padre.

* Ibidem