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Paolo Ferrari: Come dar credito a una differenza (assenza) che non differisce da nulla se non da se medesima? è il titolo della penultima tappa dei Seminari di quest'anno.

E' un titolo molto impegnativo e prosegue la serie del credito, del credere, di codesto particolare credere che s'imbatte continuamente con questo nulla e, nell'imbattersi con il nulla, diventa un credere sulla punta dei piedi, diventa un credere che già di per se stesso incomincia a oscillare; e per cui credere nel credere. E' un credere che già pone al suo interno una differenza, perché comunque è un credere laico; e si pone nella differenza. Ma d'altra parte, contemporaneamente, [in] questo credere, credere a nulla, attraverso anche l'excursus dei Seminari di tutti questi anni, si vede che questa differenza è in fin dei conti una differenza che è talmente assoluta, per certi suoi versi, per una certa sua direzione, per una certa sua condizione, per una sua specificazione, che è capace continuamente di essere uguale.

E' come dire che l'altro, che l'alterità, che si fa assoluta, ha due possibilità: o scompare del tutto dalla vista... vi ricordate i Seminari di alcuni anni fa in cui avevamo preso in mano questo paradosso logico: il fatto che se un alcunché fosse davvero differente da un altro oggetto, dall'osservatore che osserva e dalla relazione che si instaura - oggetto per dire entità -, questo non sarebbe più recepibile, percepibile, conoscibile; uscirebbe dal campo della conoscenza. E d'altra parte il campo della conoscenza è quel campo che si pone nella differenza: io, in quanto osservatore, osservo l'altro, osservo la differenza dell'altro; in tale differenza io pongo le mie questioni, pongo le mie ipotesi, pongo i miei teoremi. Ma se questa differenza fosse una differenza veramente altra, l'alterità, questa differenza, in quanto non più capace, non più vincolata a dei legami con il primo termine, il secondo termine tenderebbe di per se stesso a scomparire, a non essere, a non poter essere riconoscibile.

Questo d'altra parte è un po' il tema di tutta la questione che si sono posti anche, qualche volta - avrebbero dovuto porsela da sempre -, i vari ricercatori che mandano i messaggi nello spazio, che mandano i messaggi verso l'altro mondo, che mandano le varie formulazioni logiche, matematiche, le varie forme che rappresenterebbero una sintesi della conoscenza umana. Ma se davvero esistessero altre forme, altre condizioni - e dovrebbero essere delle condizioni di vita-morte probabilmente diverse, in assoluto diverse da quelle che noi viviamo -, queste non potrebbero ricevere nessuno di questi tipi di messaggi perché questi messaggi sono comunque all'interno di un sistema, fatto da Homo sapiens, il quale ha dei cicli vita-morte fatti in un certo modo, anche se questi poi si confrontano nei vari tipi di civiltà, vari tipi di ambiti storici.

Riprendendo la questione, la differenza che noi abbiamo continuamente posto in questi Seminari è talmente altra che, in un certo modo, si può dire che si fa, che diventa, in questa sua capriola, un'altra volta uguale, in quanto diventa includente, e diventa includente di se medesima. La differenza che noi abbiamo posto è differente soltanto in quanto pone continuamente l'alterità, la differenza rispetto a se medesima.

Uno dei momenti cruciali nello sviluppo del bambino è quando il bambino, dal doversi nominare e dire: "Carlo dice, Pietro dice, Alessandro dice" per nominare se stesso, elimina, impara a cedere, a far scomparire questo specchio, questo rispecchiamento e passa a questo momento massimo, importantissimo della cultura, della strutturazione di Homo sapiens  in cui il bambino Homo sapiens dice "io".

Nel momento stesso in cui dice "io, io sono, io ho, io comunico, io esisto", questo "io" ha perso il connotato di essere un alcunché di visibile, concreto, ha perso il rispecchiamento: è il primo atto veramente astratto di un'esperienza astratta che Homo sapiens fa, perché questo io non sta da nessuna parte, non si connota con un nome, non ha una qualità, non ha una qualifica, è soltanto un fondamento; si dice "fondamento ontologico". Cioè dal rispecchiamento "io Paolo" - e non riesco -, "Paolo è", nel momento stesso che dico "io sono", perdo questa connotazione uguale, di uguaglianza rispecchiante, passo direttamente a questo fondamento dell'essere, scompaio come elemento rispecchiante e incomincio a porre questo "io" che non è nulla se non se medesimo, e questo se medesimo, nel sistema che noi stiamo studiando, stiamo lavorando, scompare ulteriormente e, come dico nella Commedia* - proprio nel pre-atto, nel pre-prologo della Commedia  - "Io è morto, Assenza sia fatta". E cioè anche "io" viene meno, anche "io" impara a cessare; in questa cessazione si pone l'ulteriore differenza che è questa Assenza, che è questa differanza, che è questa différance, come la chiama Derrida - per fare un ponte con uno degli studiosi della differenza, dell'alterità.

Nel momento stesso in cui io pongo questa differenza da me stesso incomincio a oscillare rispetto a me stesso, incomincio ad accettare questa cessazione di me stesso, la differenza incomincia a essere. Ma, nel momento stesso che questa differenza è posta, questa differenza include tutto l'universo, tutto l'universo che è in relazione con questo differire, con questa différance, con questa differanza, con questa Assenza: incomincia a porsi assente. E cioè, nel momento stesso in cui il bambino si rispecchia, tutto il mondo è continuamente lui, è il suo specchio, è il suo essere speculare: il mondo non è altro che il suo rispecchiamento. E questo è il tema della sua fase narcisistica, che si porterà poi appresso tutta la vita, perché questo specchio è molto difficile da perdere. In questo specchio c'è l'elemento egoico, c'è l'elemento egocentrico. Nel momento stesso in cui questo specchio cade, decade, si tralascia, la differenza è fatta e, nel momento stesso in cui uno degli stadi della differenza è compiuto, anche tutto il mondo circostante diventa questa differenza. E cioè, nel momento stesso in cui io proietto me sono continuamente me, e sono questo specchio, e il mondo consiste in questo rispecchiamento, in questa proiezione. Nel momento stesso in cui vado oltre questo specchio, questo specchio cade, anche tutto l'universo diventa molto più vuoto, diventa molto più astante, diventa molto più assente, diventa molto più capace di trasdurre, trasmettere la comunicazione, la a-comunicazione, e cioè il mondo incomincia a farsi questo elemento che è capace di questa differenza,  la quale differenza non è altro che una differenza da se medesima.

Per spiegare un po' meglio questa questione, per concretizzarla un pochettino di più quello che lungo gli anni ho visto nell'osservazione di una certa condizione particolare, nel lavoro di formazione delle persone, nel lavoro poi specificatamente terapeutico, in certi processi patologici abbastanza gravi, è il fatto che, mi si diceva da parte del paziente - ricordando certi episodi da bambino, ma anche da adulto - il mondo per lui, in certi momenti, poteva scomparire da un momento all'altro; c'era di fondo una specie di terrore per il fatto che il mondo sarebbe potuto scomparire da un momento all'altro. E questo era un fatto abbastanza particolare che, si dice, è spesso nell'ambito delle psicosi, nelle patologie gravi in cui c'è la frammentazione dell'io. Ma a mano a mano mi accorgevo che c'erano due fasi differenti - ma senza differenza quasi -, su un crinale molto vicino in cui, da una parte, quando l'io è frammentato e non c'è la continuità nel tempo, allora il mondo scompare, scompare in un abisso - e questo è l'abisso della patologia -, ma in altri momenti è questo crinale molto difficile, e sembra che sia sullo stesso punto, e ci sia un'oscillazione - ed è per questo che ritenevo, e ritengo, la psicosi, la schizofrenia, in certi momenti molto simile a una sanità, se fosse girata dall'altra parte, una sanità-ultrasanità, cioè a un mondo che è capace di liberarsi di se medesimo. Il fatto che il mondo scompariva, questa espressione non era nient'altro che il fatto che scompariva quel mondo totalmente concretizzato, quel mondo totalmente di difesa, quel mondo totalmente addossato al soggetto, che lo soffocava, che lo faceva morire, lo faceva implodere, ma che, essendo il mondo comunicato dalla madre o dal padre, comunque il mondo primordiale, il mondo originario, la dissoluzione che avveniva attraverso il lavoro terapeutico oppure, in certi momenti, in certi piccoli momenti in cui l'essere poteva fondarsi, poteva trovare una differenza, questa differenza, invece di essere il mondo vero, che era il mondo scomparso, diventava il terrore del mondo scomparso. Cioè in realtà Homo sapiens, rispetto all'animale, ha un mondo scomparso: è un mondo che è fatto di descrizioni, è un mondo che è fatto di simboli, è un mondo che è fatto di forme, è un mondo che è fatto di geometria, è un mondo che è fatto di astrazioni. Per il bambino ammalato o per l'adulto ammalato, nel momento stesso in cui questo mondo che, a causa della sua patologia, non è stato fatto di forme, di descrizioni, di linguaggi astratti, ma è stato fatto di tutti gli elementi molto concreti che l'hanno soffocato, questo soffocamento, essendo il suo abito naturale, è stato vissuto come il mondo così com'è.

Nel momento stesso in cui, nel lavoro terapeutico o in certe fasi particolari, questo mondo soffocante, questo mondo ostruente, questo mondo ingombrante, vissuto nell'ambito delle relazioni familiari, veniva meno, questo veniva vissuto come la scomparsa del mondo tout court, e quindi il terrore, un'altra volta, della scomparsa del mondo come se fosse il mondo che si frammenta, il mondo che si dilegua, il mondo che produce l'abisso dell'angoscia totale, mentre questa non è nient'altro che la liberazione da un mondo soffocante. Oppure in altri momenti in cui certe situazioni di certi pazienti che vivono l'estraneità, l'estraneamento, ma anche questo visto da due parti: l'estraneamento quando il mondo si fa più astratto, più differente, altro rispetto al soggetto - e il soggetto perde lo specchio -, il soggetto ha paura di essere estraneo perché non si è mai confrontato con l'alterità, con un mondo che è differente, un mondo che è diverso, un mondo che in realtà, se fosse realmente differente, neanche esisterebbe in questa differenza perché la differenza è venuta meno, anche la differenza stessa. Il tema di cui abbiamo trattato in tutti questi anni è che c'è un'ulteriore differenza in cui l'io, che è capace di venire meno ulteriormente, quel mondo soffocante che non è sufficientemente differente dall'io - e dall'io non è venuto meno e non è capace di differire da sé... è possibile un ulteriore mondo in cui c'è realmente la scomparsa, in cui il cervello non ha più bisogno di costruirsi dei mondi per potersi vivere, ma incomincia a viversi nell'estinzione dei propri processi, cioè della mancanza di se medesimo, nella mancanza di quell'ideazione che è ancora un elemento speculare di sé.

E questo so che è un accenno breve, se no qui non si finisce più.

Una premessa di tutto questo doveva essere il fatto che l'apertura del Seminario - e questa non è già più un'apertura, diciamo, è una post-apertura - la facciamo con Loretta che canterà un canto in sospensione, un canto sospeso che ho composto, un canto astratto; io l'accompagno con gli strumenti elettronici. Alla fine chiuderà il Seminario Lisetta che suonerà con me il pezzo che abbiamo suonato la volta scorsa, che è Sulla strada, di Janàcek, che io ho composto, che Lisetta ha studiato, che io raddoppierò, come al solito, in questo tipo di creazione simultanea che si confronta e si accoppia secondo i vari tipi di interpetrazione. Abbiamo pensato che fosse interessante riproporlo perché è un pezzo molto complesso, ha un cuore molto profondo, ha un cuore assente, ma ha anche un cuore molto palpitante - è questa narrazione di questo cammino lungo una strada, è questo presentimento, è la fine -, [un pezzo] che doveva essere, a nostro parere - di Lisetta e mio -, ulteriormente scavato, ulteriormente fatto parlare con le ulteriori voci che in esso stavano e che ancora non erano venute fuori a sufficienza perché ogni pezzo dev'essere continuamente, come in tutte le varie composizioni umane, stratificato, pensato, ripensato e reinterpretato fino ad avvicinarsi al suo cuore reale, al suo cuore assente.

Va be'. Loretta!

[Loretta Gasparutti canta Canzona d'Assenza, di Paolo Ferrari, accompagnata da strumenti elettronici suonati dal compositore stesso. Durata 4' circa]

Susanna Verri: Sul tema della differenza, e in particolare della differenza in-Assenza, cioè di quello che è l'ambito nuovo che il termine assume - come diceva Paolo e come stiamo vedendo in questi Seminari - all'interno dell'ambito di cui ci occupiamo, ho pensato di avviare queste brevi considerazioni - molto brevemente, cercherò anzi di essere ancora più breve, visto che il tempo è andato avanti - a partire da un brevissimo accenno a quella crisi dell'uomo, dell'umanesimo, della valenza di un io capace di dominare le sue istanze, completamente, e di conoscere appieno tutto quello che gli succede, che era stata aperta all'inizio del secolo da Freud con la scoperta dell'inconscio. O, per lo meno, non si può parlare di scoperta perché lui stesso era ben consapevole di come il termine fosse stato già precedentemente ampliamente esplorato, nel corso dei tempi, nell'ambito della filosofia, poi anche dalla psicologia sperimentale; ma Freud fondò un nuovo ambito e una nuova disciplina attorno alla scoperta che l'inconscio aveva una valenza non solo filosofica, ma reale, all'interno di ciascun soggetto, e quindi che si sarebbe potuto, a partire dalla scoperta di un nuovo ambito, andare incontro a una crisi definitiva dell'uomo e dei valori che avevano fatto la sicurezza, anche, dell'uomo occidentale fino a quei tempi.

E cioè, la scoperta dell'inconscio come un qualche cosa di riscontrabile, di dimostrabile all'interno della vita quotidiana di ciascun individuo, di ciascuna persona, all'interno del materiale che dall'esperienza di ciascun singolo poteva provenire, portò al decentramento dell'io, cioè l'io definitivamente iniziò a perdere, sempre di più, di peso, d'importanza, di padronanza, perché Freud sosteneva che l'io non è padrone in casa propria, e non è padrone perché esiste un altro, un ulteriore soggetto all'interno dell'uomo, che è l'inconscio. Quindi l'inconscio da Freud venne letto e interpretato e scoperto come una nuova logica, come un nuovo soggetto all'interno del soggetto stesso. Per andare velocemente, tutto questo ambito aperto ha avuto una lunghissima evoluzione nel corso del secolo successivo, cioè del '900 che è da poco terminato, per arrivare poi a Lacan - psicoanalista francese molto noto - che riprese molte delle elaborazioni di Freud, riprese in particolare anche la sua nozione di un io che non è soggetto, ma è assoggettato: l'io assoggettato all'altro, all'altro che è l'inconscio stesso. Ed è un io che, addirittura, non solo non è più padrone del soggetto, non solo non è più soggetto in se stesso, ma è un sintomo, ed è un sintomo determinato, condizionato, condizionato dalla presenza di questo altro che è l'inconscio. Il soggetto quindi viene così da Lacan posto come strutturalmente, originariamente alienato da sé, barrato, attraversato da una differenza, una differenza tra l'essere e l'immagine di sé. Anche Paolo prima accennava a tutti quei percorsi, quei processi che avvengono nella crescita del bambino perché invece possa a mano a mano formarsi un io. E poi però abbiamo visto come questo io così alienato, a sua volta, debba - per noi o sia interessante per noi - andare incontro a un'ulteriore perdita di sé, quindi andare incontro all'attraversamento di questa differenza - che è quella di cui stiamo parlando questa sera -, di questa differenza da sé che apre il campo in-Assenza.

E mi interessava, in particolare rispetto al tema di questa sera, uno degli Aforismi che abbiamo distribuito, dei nuovi Aforismi sulla différance-Assenza in cui l'Assenza stessa, nel suo insieme, è definita come differenza, cioè come una differenza continuamente prodotta, continuamente altra da sé, che come tale fonda o si apre a una non esistenza, perché Assenza è appunto ciò che non è, e ciò che, in questo non essere, apre anche al superamento - come abbiamo visto in altri Seminari - della morte; e allora possiamo dire che un'altra differenza che c'interessa - o sempre la stessa, da un altro punto di vista - è quella che può entrare all'interno dell'equilibrio vita-morte: nel campo in-Assenza - noi abbiamo visto - c'è una rottura di questo equilibrio, quindi entra una disparità.

Ma la differenza, la differenza da sé, è stato un tema fondamentale in questi Seminari - a partire dal '97, e ancora prima, dagli anni precedenti -, e poi nello scritto - degli anni più recenti - del modello di città del Terzo Millennio,* importante perché [in esso] questo punto centrale della differenza da sé diventa il cuore di un nuovo rapporto del soggetto con se stesso e con l'oggetto, cioè l'oggetto realtà può essere colto in differenza da sé e, se colto in questa sua differenza, e se il soggetto che coglie l'oggetto in differenza è esso stesso differente dà sé, si forma un tipo d'interazione tra l'osservatore e l'osservato, tra il soggetto e la realtà, di nuovo genere, attraversata da una costante che è questa differenza. Questa costante in-A o in-differenza è veicolo del nulla di nuovo genere di cui ci occupiamo; e questo nulla, questa costante che continuamente apre nel cuore del soggetto, nel cuore dell'oggetto, nel cuore della realtà, una differenza tale per cui non c'è fissità possibile data l'esistenza di questa costante che continuamente ferisce l'unità e rompe il rispecchiamento di cui diceva prima Paolo, allora, all'interno di questa realtà mediata ed esperita attraverso questa nuova costante, i rapporti nascono di nuovo genere. Nascono di nuovo genere perché si avvia il processo di dematerilizzazione di cui tanto abbiamo parlato, perché l'oggetto colto in differenza da sé è un oggetto di nuovo genere, ed è un oggetto che, siccome perde se stesso continuamente, si smaterializza e con lui si smaterializza il soggetto che lo coglie e la realtà in toto. E questo era il cuore di quel movimento che stava all'interno del processo di autogenerazione della nuova città come era stato formulato nel Progetto di città del III Millennio,* perché questa costante in-Assenza di dematerilizzazione diventava lì principio etico e il fondamento di nuove relazioni tra i cittadini e la loro città che essi continuamente producevano attraverso l'espressione di questa costante in-differenza da sé, perché questa differenza da sé veicola un nulla capace di produrre una dematerilizzazione, cioè di produrre una rigenerazione dell'oggetto che noi conosciamo, e di aprirlo a un'alterità.

E mi fermerei, a questo punto.

Luciano Eletti: Questa domanda: "Come dar credito a una differenza?", la inserirei nel capitolo, che abbiamo iniziato la volta scorsa, del credere in nulla che è un nuovo tipo di credere ragionevole. Vediamo prima un piccolo excursus per spiegare in che mod è una differenza ragionevole.

Vediamo prima un piccolo excursus, per spiegare in che modo è una differenza ragionevole.

Ovviamente, di differenza si è parlato da duemila anni. Ma una delle ultime descrizioni della differenza, tra le più interessanti, della differenza è quella, accennata più volte da Heidegger, della differenza ontologica, che è la differenza fra l'ente e l'essere; l'essere che è il venire alla luce dell'essere, non la cosa, cioè l'ente che noi chiamiamo "cosa", anche se non è identificabile tout court [con essa], è una differenza tale per cui, secondo Heidegger, il problema dell'essere, dall'epoca di Platone, non era stato ancora ben elaborato ed era ancora rimasto al discorso platonico. E la difficoltà di Heidegger... sentivo parlare dell'essere barrato di Lacan - non a caso Lacan aveva studiato molto Heidegger -, e negli scritti di Heidegger nel dopoguerra si usa spesso la parola essere barrata o crociata [essere], nel senso che non va letto come essere l'ente. Quindi una differenza talmente radicale, secondo lui, per cui non può essere neppure descritta con la lingua che abbiamo; la lingua che abbiamo è fatta di "cose" ed è in grado di descrivere cose. Quindi, questo tipo di differenza ragionevolmente espressa, rientra nel nostro sfondo, su cui ci muoviamo. Di differenza parlò anche Hegel, facendo notare che nell'identità è già posta, così come il non essere è dentro l'essere, è lo stesso che l'essere; l'unica distinzione che facciamo è dell'intelletto, e non secondo la ragione.

Secondo Aristotele la differenza implicava un termine medio comune; cioè se A e B non hanno questo termine comune, sono diversi; [sono] differenti quando hanno questo termine comune su cui confrontarsi. Allora la domanda che questa osservazione aristotelica pone è una domanda che possiamo raccogliere anche noi; cioè questa differenza, in senso aristotelico, è sbagliata come definizione oppure c'è un motivo per cui è tale, e non è una mera diversità? Se fosse assolutamente diversa, in un certo modo non potremmo neanche parlarne né accennarne. Però, nello stesso tempo, la nostra argomentazione parte comunque dall'assunto che questa differenza è ancora più radicale della differenza ontologica heideggeriana, quindi come facciamo a parlarne? come facciamo a dar credito a questa differenza? come facciamo a essere credenti ragionevoli? Il nostro credere deve essere razionale. C'è un punto che Paolo Ferrari svolge nella A-meditazioni,* credo - è una cosa che si pesca non tanto facilmente, questa volta, dal sito, visto che ci sono undici pagine sulla differenza -, dove si accenna [al fatto] che l'uomo è costituito dalla differenza, se no sarebbe ancora un animale.

La mia opinione era che l'inserirsi della cognizione del morire, nell'uomo che ancora non era sapiens, fu la condizione perché questa differenza rimanesse, e per cui d'allora in poi tutte le religioni hanno parlato dell'uomo come qualcosa di completamente staccato dal regno animale, comunque con una sua dignità particolare. Però, di questa differenza che lo costituisce, che fa in modo che Homo sia tale prima ancora, addirittura, di esser sapiens, di questa differenza l'uomo non ha gli strumenti o l'accortezza per rendersene conto; di fatti Paolo Ferrari citava, prima, esperienze psicopatologiche; nelle Lezioni* accennava anche alle differenze date dal coma, dall'anestesia, questa interruzione in cui non è dato modo ad Homo di pensare per "cose", perché questa differenza, innanzitutto, è differenza dell'essere e dall'essere. Quindi, come si diceva altre volte, l'uomo è costituito da questa differenza ma, essendo incapace di scendere sotto soglia, non è in grado di vederla perché, come ben s'era accorto Heidegger, il linguaggio che conosciamo deve per forza descrivere delle "cose". Quindi l'esperienza, il pensare, che non si serve di "cose", sparisce sotto l'orizzonte degli eventi.

Un "non credere ragionevole", questo può porre dei problemi. Per esempio, sempre in questi scritti - credo siano le Lezioni, o i Seminari, gli ultimi Seminari -, si accenna all'impossibilità di pensare modelli sperimentali per portare alla luce del pensiero razionale ordinario l'attività in-Assenza, oppure di rendere applicabile il metodo popperiano della falsificazione, cioè di porre come criterio scientifico un assunto che possa presentare in sé un punto in cui possa essere confutato e, secondo la regola di modus tollens, un'antica regola logica, se qualcosa che costituisce strettamente un sistema viene meno, non è solo quella cosa che viene meno, ma tutto il sistema.

Io ho sempre trovato molto interessante e affascinante questo metodo della falsificazione, e adesso ne trovo anche aspetti in cui occorre saper rinunciare alla difesa di una posizione, il che, dal punto di vista metodico, non è una cosa tanto semplice da attuare.

Allora, come si fa a dar credito, visto che non è visibile? Dobbiamo partire da un'ipotesi: visto che nessun metodo scientifico può essere messo in gioco per cogliere questa differenza nella gabbietta, nessun caput mortuum può venir fuori da un esperimento, dobbiamo ipotizzare che questa differenza abbia una forma del tutto diversa: la differenza diversa - appunto qui c'è una contraddizione logica data dal fuoriuscire della metodica. Se questa differenza è diversa dall'essere, e dell'essere, questa non appare; ma se, invece, in questo buco vuoto della "cosa", il pensare non cessa ma è semplicemente sotto la soglia dell'evento o sotto la soglia di visibilità, allora questa differenza agisce eccome, e il discorso sulla differenza rientra da un'altra parte.

Un altro tema che abbiamo già affrontato, e che sembra illuminarlo e ricevere luce a sua volta, è quello del gesto. In un altro punto degli scritti di Paolo Ferrari - forse uno dei testi che saranno pubblicati a breve - si parla del pensare come di qualcosa che è più affine - e qui c'è sempre la difficoltà del linguaggio, bisogna sempre dire "qualcosa"; useremo qualcosa barrato, qualcosa che è messo tra parentesi e che ha solo l'artificio della cosa verbale - al soffio, al respiro, allo spirito, allo pneuma - e questi son tutti termini gloriosi nella storia della filosofia, che sembrano acquisire un altro significato, un significato più chiaro. Allora, è questo gesto, che è la differenza, che produce; ma che cosa produce? la "cosa"? No, rientrerebbe immediatamente nel solito sistema, ricominceremmo a parlare di cose senza barratura. La differenza che agisce, invece, genera nulla. Da questa ipotesi, nulla è visibile effettivamente in questa azione in-differenza, perché se noi abbiamo occhi e abbiamo parole solo per dire l'essere - l'ente, direbbe Heidegger -, come possiamo cogliere un pensare senza queste parole? ma non solo il pensare: il gesto, l'azione-inazione. Questo gesto in-differenza produce un nulla che è generatore, quindi un nulla completamente diverso da quello che ha nella morte concreta la sua manifestazione più chiara e saturata: è un nulla che non ha la possibilità di essere occluso da alcuna "cosa" e quindi apre la via a una morte astratta. Dobbiamo pensare a questo gesto che, creando nulla, ha in sé la differenza, la genera e può essere - anche questo essere è l'essere barrato - ciò che sta come sostrato all'essere, anche a quello di cui parla Heidegger. Quindi l'essere di cui parliamo viene alla vista, viene alla lichtung - in senso heideggeriano - proprio perché c'è questa attività in-Assenza che è differente perché non è coglibile, non è diversità perché Homo la conosce, senza rendersene conto, e la ritrova spesso nella sua vita, nel modo per cui riesce a compiere gesti che abbiano un valore tale per cui la civiltà non è rimasta quella di tremila anni fa.

Come al solito mi manca la conclusione, ma ce l'avevo.

Paolo Ferrari: E' questo finire. E' il finire.

Luciano Eletti: E' questo finire. E potremmo definirlo anche in un altro modo questo gesto del finire: è l'essere, è il dicente che è diverso da sé mentre dice. Allora la differenza è la sorpresa del trovarsi la parola espressa che non è stata pilotata dall'intelletto, anche se è venuta fuori da un'attività che non è visibile.

Paolo Ferrari: Ma questo come tutti i linguaggi: ogni tipo di linguaggio non è pilotato dall'intelletto, ma è l'intelletto che fa da sostrato e permette questo linguaggio, quindi è l'intelletto che si fa assente nel momento stesso in cui (parole incomprensibili)

Luciano Eletti: Ecco, la differenza si vede che nasce quando il soggetto si pone in una disposizione tale per cui accetta di essere differente e di non legarsi a una fissità nel mentre esprime, gestisce o pensa. In questo modo attiva per completo questa differenza.

Paolo Ferrari: E, d'altra parte, è sintomatico questo fatto che tu ti trovi lì che ti manca il gesto del finire perché il finire - entrando all'interno di questo discorso, siccome sei andato a toccare determinati punti di questo discorso in cui l'elemento cruciale di tutto questo è il finire cioè, come dicevo, il fatto è che il bambino che rispecchia se stesso, nel momento stesso che cede questo rispecchiare, tralascia questo rispecchiare, pensa di essere finito, così come nella psicosi il paziente pensa che il perdere le proprie difese o perdere il proprio mondo che pensa che sia l'unico mondo, questo sia la scomparsa del mondo -, anche questo fatto del finire è un fatto fondamentale, cioè il finire significa che in ogni istante, in questo altro sistema, in questo asistema, c'è un continuo a-essere, c'è un continuo a-finire, come dicevo prima, c'è un continuo cessare, e quindi in questo cessare è proprio probabilmente la base di questo, dell'intelletto, dell'intelletto profondo, complesso, dell'a-mentale in cui c'è continuamente, è innescato, ormai, in questo sistema in-Assenza, un finire, un cessare, e che è possibile un'attività superiore, e un'attività superiore la quale ha continuamente nel suo cuore questo finire. Ma già Homo sapiens ha nel suo cuore il suo finire, cioè ogni linguaggio ha continuamente il finire; ogni linguaggio, ogni parola che si dice, ogni parola è già compiuta di per se stessa, per cui è già finita; [e così] ogni persona che parla, ogni discorso che si pone, se è guidato dall'intelletto e dall'affetto; però questo affetto significa che ogni parola, ogni discorso ha il suo finire; in un certo senso è già cessato prima di iniziare, davvero, sul fondo.

Adesso mi viene in mente che una delle cose che mi son sempre piaciute di più nell'ambito della letteratura, e che spesso abbiamo citato, è il finire, la morte di Ivan Il'ic,* di Tolstoj, che dice:

"'E la morte? Dov'è?'.

Cercò la sua solita paura della morte e non la trovò".

E stava morendo.

"Dov'è? Ma che morte? Non c'era più paura perché non c'era più morte.

Invece della morte, la luce.

'Dunque è così!' disse ad un tratto ad alta voce. 'Che gioia!'

Tutto questo non fu che un attimo per lui, ma il senso di quell'attimo ormai non poteva più mutare. Per i presenti la sua agonia durò ancora due ore. Qualcosa gorgogliava nel suo petto; il suo corpo macerato si scuoteva. Poi il gorgòglio e il rantolo si fecero sempre più rari.

'E' finito!' disse qualcuno su di lui.

Egli udì questa parola e se la ripeté nell'anima. 'Finita la morte' si disse. 'Non c'è più la morte'.

Trasse il fiato, si fermò a mezzo, si irrigidì e morì".

C'è anche tutto questo gioco del trarre, trarre-astrarre il fiato; cioè, un'altra volta, quello che si diceva prima di questo fatto che il fiato, lo pneuma, è il respiro della meditazione orientale. E' questo pensiero che si fa assente rispetto a se stesso, ma si fa assente anche, molto probabilmente, di questo pneuma.

Questo "lungo racconto" che ho scritto, infatti termina... incomincia l'ultimo capitoletto: "Si fanno a mano a mano più radi gli eventi vuoti e sensibili, generosi entro la mente; i colpi del nulla-compiuto battono vivi e capaci d'assenza; un passaggio sconosciuto è annunciato da un segnale che rapido m'attraversa la coscienza. A sé esso richiama un'area estesa quanto e più dell'universo intero. E' mediatore tra i segni del nulla, duttile veicolo onde riuscire Abstractum entro l'uomo di prima. Il profondo canale del tempo: un tempo mediante il quale l'intero oggetto del mondo è pronto a ruotare. Una veggenza fatta di nulla!". E poi va avanti.

Finisce: "Allora il Niente in-Assenza...Ebbene sia! Qui mi pongo; quieto e risoluto attendo che il trapasso dell'intero universo - e oltre - infine si compia insieme con ogni suo risvolto, me senziente, astratto e forse inesistente. A te, lettore, mio compagno, affido lo scritto in cui tutto è già terminato ancor prima di iniziare".

E cioè, quando la parola parla davvero è già finita. Questo discorso che sto facendo è già finito, è già terminato perché in sé non si specchia, si autogenera, si tralascia, si perde ed entra in questo stadio che è in-Assenza, e questo produce quest'altro pensare che adesso produrremo con Lisetta, col pianoforte.

Paolo Ferrari: Mettiamo la Sibilla come spettatrice...

Renata Ranieri: Scusa, posso dirti una cosa?

Paolo Ferrari: Sì, dì.

Renata Ranieri: Non so se riesco a porre la domanda in modo chiaro. Volevo capire che legame c'era tra... cioè l'inconscio è anche l'assenza del conscio, in un certo senso - lo capisco così. Allora, se finisce una certa realtà che noi percepiamo con il conscio e si genera un'assenza che è più collegata al nostro inconscio cioè permette di collegarci all'inconscio, qual è la realtà legata a quest'inconscio? E se noi non possiamo percepirla, in che maniera ci colleghiamo a quella realtà, una volta arrivati alla cancellazione - uso delle parole sbagliate - del narcisismo e al sentire "io"?

Non so se mi sono spiegata.

Paolo Ferrari: Sì. Intanto c'è da fare una differenza tra inconscio e inconscio, cioè inconscio non è che... Cioè, io sono sempre dell'idea che l'inconscio debba diventare conscio - è una delle cose che volevo dire prima, ma poi non ce n'è stata l'occasione. E' che, quello di cui sto parlando, cioè questo terminare, questo cessare, non è niente e, in quanto non è niente, per questo, in questo niente pone la differenza. Cioè ammettiamo che io stia parlando in-Assenza: il mondo che io vado confrontando fuori di me non è diverso da quello che è mediato dalle strutture conscie o inconscie, normali di Homo sapiens ma, essendo vuoto, cioè non essendo concretizzato da tutto quell'elemento di materilizzazione che il pensiero ancora animale genera, rende cruento, questo mondo comunque è scomparso rispetto a tutto il mondo che invece è quello del rispecchiamento oppure è quello della concretizzazione del mondo animale a cui l'inconscio umano, per una parte, per tutta la parte pulsionale, ancora appartiene. Per cui io non parlerei d'inconscio, parlerei del fatto... per quello che l'ho chiamato subliminale, perché non so come chiamarlo in altro modo, oppure, come diceva Luciano, come sbarramento dell'essere, oppure come sbarramento del conscio, come taglio del venir meno.

Allora, per rispondere a te, non è che te ne accorgi, perché non ha differenza ma... perché nell'accorgerti, nel momento stesso in cui ti accorgi, tu ti rispecchi. Ma è questo il mistero: non è che il bambino si accorge del fatto che cammina a quattro zampe, che cammina a due, è che poi, memorizzando, esce da sé e dice: "Sì, ma sto... guarda, prima camminavo a quattro zampe". Nel momento stesso in cui incomincia a parlare, non è che si accorge che prima non parlava. Nel momento stesso in cui sei nato, non è che ti ricordi del fatto che tu sei nato e che prima non eri. E' perché sei in questo essere. L'unico accorgimento che tu hai è del fatto che la realtà... è un accorgimento mediato dal fatto di questo divenire, del fatto che tu sei in questa differenza: è che ti accorgi del fatto che per certe azioni, per piccole azioni, non so, che parli con una persona, che tocchi un oggetto, che pensi a una cosa, questa cosa vedi che non ti corrisponde più come prima, pur essendo quella cosa lì, quella che tu già conosci, ma non ha più quella pesantezza, non ha più quel nucleo, non ha più quell'elemento soffocante, non ha più quell'elemento che ti impediva il fatto di poter camminare più leggera. E la stessa cosa è per il bambino che da quattro zampe va su due zampe, va su due gambe. Non è che si ricorda com'era ma, dopo, ricostruendo, può ricostruire il fatto che è molto meglio camminare con due gambe, anche se oscilla rispetto alle quattro gambe. E' il fatto che si amplia - si dice - la maturazione affettiva, cioè l'affettività diventa maggiore, la relazione diventa maggiore, le cose ti stanno molto meno addosso, per esempio non ti senti più le cose addosso. Ma per fare questo devi uscire da te. Il passaggio ulteriore [è] quando questa cessazione dell'io avviene in massimo grado, ma ritengo, appunto, non sia ancora la fase attuale possibile; però, in un certo senso, è in quella direzione, nella direzione in cui il mondo non è più soffocante: il mondo che - come questa descrizione tendeva a fare - diventa questa specie di canale, di punto vuoto in cui non c'è più bisogno dell'esistenza di un mondo. Ma non perché il soggetto è diventato autistico e si rispecchia, ma perché ha cessato di creare un mondo che comunque è il rispecchiamento di tutte le idee che sono di tutta l'evoluzione della specie, dall'animale all'ominide a Homo sapiens.

Renata Ranieri: Ho capito. Però il mondo, la realtà è sempre quella, non cambia, cambia il mio modo di percepirla.

Paolo Ferrari: Sì, ma non solo. Nel momento stesso in cui tu ti relazioni con la realtà, se tutti gli uomini si relazionassero in quel modo lì, questo mondo tenderebbe di più ad essere scomparso perché, rispetto all'animale - l'animale ha tutto un mondo fatto di tane, di aggregazioni... Il mondo è diventato descrittivo e da qui è nato l'ominide; le forme prima non esistevano - insomma qui poi diventerebbe una discussione scientifica, nominalistica... Ma comunque il mondo è descrittivo. Se noi dovessimo tornare indietro, se noi tornassimo a essere scimpanzé, il mondo non sarebbe più descrittivo perché noi non lo riconosciamo, ma il mondo si è adeguato a questo elemento di nuova forma astratta che prima non aveva, prima che potesse essere pensata; probabilmente ce l'aveva, perché il mondo, di per se stesso, in realtà, non esiste. Il mondo è questa alterità che si è posta nel momento stesso in cui l'uomo ha incominciato a pensare.

Renata Ranieri: Sì, sì, ho capit. Si può dire anche: "Esse est percipi" o no?

Paolo Ferrari: E va be', questa è una delle posizioni.

[Lisetta Carmi esegue al pianoforte il pezzo composto da Paolo Ferrari intorno a quello di Janàcek, Sulla strada, mentre Paolo Ferrari contemporaneamente lo raddoppia al pianoforte. Durata 17' circa]

Paolo Ferrari: Allora, con questa drammatica passeggiata di un giovane, nei disordini del 1905, in Boemia, e con questo pensiero intorno al pensiero di Janàcek, terminiamo.

Arrivederci.



* P. Ferrari, Astratta Commedia, Campanotto Editore, Pasian di Prato (Ud), 1998.

* P. Ferrai, Progetto di città (del III Millennio) in Raddoppio assente, 2000.

* Ibidem

* P. Ferrari, A-meditazioni, 2001.

* P. Ferrari, Le lezioni dell'Assenza. Le vie (assenti) del nuovo pensare, Campanotto Editore, Udine, 1994.

* L. Tolstoj, La morte di Ivan Il'ic, Adelphi Edizioni, Milano, 1996.