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Paolo Ferrari: E’ ora ammissibile, ovvero tuttora utopico, pensare e vivere una realtà il cui fondamento consiste nella probabilità elevata della sua assenza?

Parleremo del mancare. Parleremo, e ne stiamo già parlando, del venir meno. Voglio introdurre la dimenticanza, introdurre l’oblio. E’ stata distribuita, son stati distribuiti alcuni brevi racconti o novelle che introducono, a mo’ di brevi parabole, o piuttosto come improvvise intuizioni, il tema di come la realtà, venendo meno e cioè essendo assente, e proprio in quanto assente e in questo farsi assente, consiste e può essere, avere transito relazionale, almeno su uno dei piani di studio di questo campo in-Assenza.

Voi sapete che c’è un’antica disputa filosofica tra realisti e non realisti: per i realisti la realtà esiste già bell’e che fatta, lì pronta, oggettiva, oggettivata; la mente umana ha la possibilità o il compito, a seconda delle visioni, di conoscerla ed eventualmente di trasformarla. I non realisti dicono che non esiste nessun tipo di realtà bell’e che pronta ma è il cervello umano, la mente umana che, attraverso i suoi schemi, attraverso i suoi a priori, attraverso le sue categorie, produce dei modelli - e i più compiuti, nel campo della conoscenza, delle scienze dure, sono i modelli matematici - e attraverso questi conosce. Per cui non esisterebbe una realtà lì, bell’e che fatta, bensì continuamente il fatto di un alcunché su cui vengono posti i modelli e per cui noi viviamo in una realtà descritta o descrittiva fatta di questi modelli della nostra mente. Questo, detto in termini molto semplici relativamente a un dibattito che è lungo duemila anni di storia occidentale.

Ora, il nostro piano in cui noi ci mettiamo è ancora ulteriormente diverso, e cioè il piano in-Assenza, quello che contempliamo è il fatto che, in un certo senso non esistano né modelli né realtà ma, in quanto questa realtà, questo fattore x è capace di venir meno, cioè è capace di essere assente, allora in questo caso è possibile una relazione. E cioè in campo in-Assenza non esisterebbe nessun tipo di realtà, non un oggetto su cui esprimere dei modelli, non un oggetto fatto di questi modelli, non una realtà bell’e che pronta, ma questa realtà, questa che noi abbiam chiamato realtà, questa res è comunque già un oggetto della mente la quale, in quanto ha bisogno di porre degli oggetti al di fuori di sé, ha costruito questa realtà, l’ha oggettivata, e continua ad andare a conoscere questi oggetti espulsi dalla propria mente. Con questo non significa che allora qualsiasi pensiero sia valido, qualsiasi immaginazione abbia fondamento, è che, in questo nuovo sistema o a-sistema, esistono delle leggi molto complesse le quali permettono di dire che tutto questo piano di realtà di cui ci siamo imbevuti, la nostra stessa identica realtà attraverso cui ci riconosciamo, e cioè lo specchio attraverso cui il bambino si vede e si intravvede, conosce sé stesso e, conoscendo sé stesso, conosce il mondo, questo specchio che è in realtà un elemento deformante, questo specchio non c’è, ovvero che la realtà non ha quei connotati di conoscenza oggettiva, non ha neppure i connotati di proiezione di immagine ma contiene al suo interno la possibilità del fatto che essa viene meno col venir meno della mente che la pensa, col venir meno del corpo che la pensa, con questo tipo di nuovo atto pensante il quale consiste nel fatto di poter non essere.

Ora, come al solito, questo può sembrare un pensiero astruso, come in Occidente è sempre sembrato il pensiero che non ammette la contraddizione, non ammette la negazione, non ammette il non essere, eppure poi su questo si interroga. Quello di cui sto parlando è comunque anche questo un modello, è un modo per ingenerare la possibilità di una relazione su questo tipo diverso di pensiero-realtà, il quale pensiero-realtà fa a meno di progettare pensiero-realtà come entità al suo esterno, come entità al suo interno, ma progetta un alcunché che continuamente è capace di non fissarsi, di venir meno, di avere la consistenza di un qualche cosa che, rispetto alla mente, rispetto al corpo come fino adesso sono stati pensati e costruiti, hanno la qualità di essere molto meno ovvero meno di quelli che sono stati concretamente fino adesso oggettivati o concretizzati.

A proposito di questo, siccome tutto questo pensiero è continuamente in evoluzione, e particolarmente nei giorni in cui c’è il Seminario perché in corrispondenza col Seminario c’è un momento in cui c’è il fatto che un alcunché di pensato in astratto, un alcunché di pensato attraverso questo venir meno, questo essere tutt’altro si concretizza e deve per forza passare attraverso dei moduli o dei modelli, dei linguaggi che in qualche modo siano medium, siano dei catalizzatori tali per cui altri possano far parte o accedere in questo discorso, avere l’accesso in questo discorso il quale al fondo ha questa continua possibilità di essere vuoto e cioè di non fissarsi. Allora, anche oggi, insieme a questi racconti che abbiamo distribuito, se n’è formato uno che è proprio nuovo di giornata e che adesso voi non avete, che ho finito poco fa, e che pone questo tema, questo problema paradossale ovvero il fatto di come, già il passaggio dall’animale all’uomo, in questo passaggio già è venuto a mancare completamente un sostrato, e già l’uomo rispetto all’animale ha dovuto pensare in assenza di animale, in assenza del mondo animale, ha dovuto mettersi in piedi, come abbiam detto, su piedi totalmente vacillanti, ha prodotto un pensiero il quale pensiero non è un’entità che si vede, non è un territorio, non è un elemento sensoriale, non è un elemento percettivo, non è un elemento che si tocca. Già Homo sapiens ha la caratteristica di avere un atto o di costruire un alcunché attraverso dei processi in assenza e questi processi in assenza sono il suo pensiero. Già il bambino, in una fase fondamentale della sua vita, nei primi anni di vita, nel momento stesso in cui, invece di dire: “Questo sono io”, guardandosi allo specchio, dicendo il suo nome anzi, dicendo: “Questo è”, perché si vede allo specchio, incomincia, fa il passaggio per cui dice: “Io sono”, questo passaggio “io”, questa entità “io” è un’entità che non si tocca, è un’appercezione di sé, è una fondazione ontologica, è un fondarsi senza avere alcun fondamento perché “io” non si tocca, “io “ non è un nome, “io “ è allo specchio, è un non-specchio, è la mancanza di uno specchio: Allora, questo brevissimo racconto che dice: “Problemi evolutivi. Quando si riebbe, notò in fretta, non senza imbarazzo, che una faccia al posto d’un muso peloso gli dava sembianza mal certa”.*

Mi permetto di descrivervelo e di spiegarvelo, perché è rapidissimo, e quindi di dare qualche elemento. “Quando si riebbe”, e in questo ipotizziamo una fase evoluzionistica che ammette il fatto della trasformazione, o per gradi, o improvvisa, o per salti, “non senza imbarazzo, che una faccia al posto d’un muso peloso gli dava sembianza mal certa” e in questo paradosso totale è, consiste questo pensiero, questo elemento dell’incertezza del fattore vacillante, come se la nostra faccia, quella umana, fosse il luogo, il paesaggio, fosse il luogo della totale incertezza, dell’elemento oscillante rispetto all’animale. Il muso peloso ha poca espressione, è comunque coperto, e comunque si ripete: la faccia umana è uno dei luoghi della più bassa probabilità di ripetizione delle forme, delle sembianze perché è mobile, perché ha la mimica, perché ha i sentimenti, ha le emozioni. Allora, di fronte a questo, è come se l’animale si interrogasse, l’animale diventato uomo ha questa sembianza, questo elemento apparente che è una sembianza, una somiglianza, una somiglianza con chi? Nella Bibbia è detto che ha somiglianza con la divinità, ma qui la sembianza, la sembianza con chi? quest’apparenza? E’ come se qui fosse tutto rivoltato e cioè l’apparenza, quello che è la mancanza di essenza, la mancanza di fondamento, quest’apparenza mal certa è ciò che dà il succo della nuova condizione. Questa dimenticanza del fatto che prima era un muso peloso e che si ripeteva, questo elemento mal certo nuovo, nuovo posto, è ciò che introduce l’elemento mal certo, introduce l’elemento cangiante, introduce, in un certo senso, questa apparenza che nel mondo occidentale ha fatto da contrasto con l’essere, con questa somiglianza, con questa sembianza; ma questa apparenza in questo caso è ciò che permette il fatto dell’oscillazione, permette il fatto della non fissità, permette il fatto della probabilità, cioè di un essere che è probabile al fatto di essere, di un io che è probabile di essere in quanto tale io. La perdita dello specchio fa perdere ogni tipo di certezza, il passaggio all’io, la perdita dell’elemento narcisistico primario, la perdita di qualsiasi punto di riferimento continuamente ripetuto o ripetibile produce l’esistenza di un mondo che è molto più assente, molto più privo di fondamenti, introduce, in un certo senso, un a-sistema, un sistema che ha come suo movimento un elemento anche ricco di anarchia, di sembianze, come dicevamo le volte passate, di punti, di interstizi, di vuoti improvvisi, fino ad aprirsi nel baratro della sua mente e nell’abisso della mente che non ha punto d’appoggio.

Lascio la parola a Susanna.

Susanna Verri: Questa sera mi sono posta da un punto di osservazione, pensando a questo titolo di questo Seminario, ampio, nel senso di cercare, per brevissimi tratti e anche con una sintesi molto veloce, però di poter vedere dall’esterno di questo a-sistema, anche, dall’interno come stava portandoci Paolo, e anche dall’esterno, cioè dal punto di vista del pensiero consueto, di alcune forme del pensiero consueto, a considerare, portarmi a considerare quale sia la condizione di Homo sapiens quindi quali siano, in qualche modo, le chance, comunque la specificità nuova che si apre nel dominio in-Assenza da un punto di vista particolare, cioè quello mio di osservazione sempre della vita psichica o comunque di Homo sapiens nelle sue vicende ultimamente più specifiche in contatto con la vita e con la morte come ne parlavamo negli ultimi Seminari. E, in particolare, nell’ultimo s’era discusso tutto il tema della vita-morte come è concepita in-Assenza, e come poi nel III Saggio,* anche, che a questo tema era dedicato, ed [in] altri scritti di cui abbiamo parlato.

Allora, sul punto della questione vita-morte e di come quindi la vita psichica di Homo sapiens o comunque dell’essere umano sia continuamente in rapporto con queste due forze - così scriveva Freud* nel 1920 -, con queste due tendenze, con queste due pulsioni di vita e di morte che si contendono il campo, in Assenza poi tutto questo tema trova una nuova lettura. Ma, secondo me, per meglio intendere anche tutto il dischiudersi di questo campo in-Assenza, è molto importante partire o andare a considerare quella che è l’angustia di questa condizione vissuta tra queste pulsioni contrapposte. Allora, nel 1920, in Al di là del principio di piacere di cui noi abbiamo già parlato negli anni passati più volte, Freud giungeva alla scoperta che, oltre al principio di piacere, la vita psichica umana era condizionata da un’altra forza, più primitiva, più pulsionale, più originaria, e indipendente dal principio di piacere, che era una tendenza alla ripetizione, "una continua coazione a ripetere", diceva, espressione di una pusione di morte, cioè espressione di una tendenza innata dell’essere umano a tornare verso la forma della vita inorganica, quindi a rigettare qualunque tensione che, nel suo sistema, tendesse a rompere gli elementi di tipo omeostatico, e a tornare verso l’uguale, quindi verso l’assenza di qualsiasi perturbazione e verso quindi la condizione più simile a quella della materia indistinta. Faceva un esempio di questa coazione a ripetere che mi sembra molto chiaro perché raccoglie tanti elementi, supera d’un balzo quella che può essere la portata della volontà, dà subito l’idea, diciamo, della vastità di questa questione, e l’esempio che fa Freud, appunto, in Al di là del principio di piacere è quello, tratto dalla Gerusalemme liberata, dell’eroe Tancredi che in combattimento uccide la sua amata Clorinda senza sapere che sia lei perché questa si è travestita da guerriero nemico.

Dopo la sepoltura di Clorinda, Tancredi si rifugia in una foresta incantata e, per dar sfogo al suo dolore, colpisce con la spada un albero e da questo albero sgorga del sangue e si sente un lamento perché è l’anima di Clorinda che si era imprigionata in questo albero. E dunque, per la seconda volta, in pochissimo tempo, non volendo – volendo o non volendo -, Tancredi aveva ucciso l’amata.

E questo è l’esempio di questa coazione a ripetere che prescinde dal piano evidente della volontà e che tende, appunto, a condizionare la vita umana e a cui si oppone, si oppongono le pulsioni di vita. E, a proposito delle pulsioni di vita, c’è l’immagine di Eros - e quindi il mito o il racconto di Platone di Eros, e qui faccio un po’ dei salti, però mi sembrava molto utile al nostro discorso quest’immagine di Eros che viene portata da Platone -, immagine che è nella mente di Freud nel parlare delle pulsioni di vita, perché Eros è amore e nasce per il congiungimento che avviene alle nozze di Afrodite, fuori dall’uscio delle nozze di Afrodite, tra Penìa, che è la povertà, e Poros che è l’espediente, il mezzo, l’accesso, quindi queste due sotto-divinità che si uniscono, e fanno sì poi che, allora, Amore, Eros sia questo essere sempre mancante perché nasce da Poros e da Penìa, nasce dalla mancanza e dall’espediente, quindi nasce sui margini, nasce con una marginalità proprio connaturata con la sua nascita, con una povertà che gli è intrinseca, con un’incapacità strutturale di trattenere alcunché, perché appena possiede qualcosa subito lo perde, è brutto, ispido, irsuto, dice Platone, continuamente in questa condizione esistenziale di disagio, amante sopra ogni cosa di sapienza: filosofo, dice Platone. Vive senza casa, vive per strada, senza tetto, non ha vestiti per coprirsi, quindi in questa condizione di indigenza, ma nasce dall’incontro con ‘espediente’ - ‘espediente’, traducono, ‘mezzo’, [come] riportava Galimberti* in un articolo recente -; questo ‘mezzo’ Paolo Ferrari lo spiegava, in un [suo] discorso, come ‘accesso’, e quindi andava a leggere questa nascita di Amore come nato dall’accesso, dall’entrata, dall’accesso che feconda la mancanza, quindi la mancanza in sé diventa generatrice di un alcunché nel momento in cui venga fecondata da questa entrata, da questo ingresso, nel momento in cui, noi diremmo nei termini dei Seminari passati, abbia questo buco, questa apertura ulteriore.

In effetti, venendo a noi, questa condizione dell’essere umano tra la pulsione di vita e quella di morte, in questa strettezza di queste pulsioni che non danno adito al rompere questo loro dualismo, produce - o comunque ospita - in Homo sapiens la nascita di un pensiero, la nascita, come vedevamo nel raccontino sull’evoluzione, di un qualche cosa che distingue nettamente Homo sapiens dall’animale precedente, ne cambia gli equilibri interni perché i suoi equilibri cessano di essere fondati sulla conservazione di sé e aprono, con la nascita del cervello, alla necessità di nuovi modelli di equilibrio, perché non si tratterà più soltanto di relazionarsi o di possedere un oggetto che è posto a distanza d’istinto ma (che), con la nascita del cervello e con la nascita dell’attività pensante, si producono tutta una serie di mediazioni tali per cui l’oggetto esterno acquisisce quella distanza che permette di differenziarlo da sé.

In Assenza noi ci troviamo in una condizione in cui andiamo alla ricerca o andiamo all’ascolto di un’ulteriore distanza dall’oggetto-cosa della realtà che possa permetterne un’oggettivazione di nuovo tipo che è quella che nasce dal pensare in Assenza, cioè che nasce da questo pensare capace di essere in una non-permanenza si sé. E da qui, quindi, da questa possibilità di non permanenza, che è anche non-permanenza di sé quindi che è anche di non-fissità della propria immagine o della propria costruzione di sé o della propria costruzione della realtà, l’a-sistema trova una possibilità di origine o, comunque, di accoppiamento con quello che è Homo sapiens in transizione verso una sua condizione a maggiore complessità, sicuramente, e a minor certezza, anche, rispetto a quella dell’uomo, diciamo, nella vita consueta ma, d’altro canto, anche una condizione in cui la posta in gioco è la rottura di questo equilibrio vita-morte così come era stato determinato dalle pulsioni di vita e di morte nella lettura precedente, cioè lo spostamento di questo equilibrio verso una condizione a minor vincolo rispetto all’oggetto-cosa concreta.

E io mi fermerei su questo punto.

Luciano Eletti: Provo a tracciare una via che non so quale sia.

S’è parlato prima dei due filoni di fondo nella storia del pensiero in Occidente, per la prima volta messi ben in luce da Hegel, cioè il ritmo di idealismo-realismo che sono distinzioni di fondo e si ritrovano anche nel pensiero scientifico molto spesso, in maniera inavvertita. Per esempio idealismo è quello di Platone che ritiene di poter indagare un regno delle idee iperuranio. Con Kant c’è un passaggio diverso dell’idealismo. per esempio, da un punto di vista… cioè Kant è costretto a fare i conti con il successo, gli sviluppi della scienza moderna, della scienza nuova galileiana e nawtoniana, ed è costretto a render ragione di come questa funzioni, attraverso quali criteri, e che cosa si possa ritenere di conoscere. Esiste quindi in queste forme di idealismo, in senso lato ovviamente - stiam parlando a grandissime linee -, kantiano, c’è questa consapevolezza che, dal punto di vista teoretico, la cosa in sé, ciò che con Aristotele, col realismo si ritiene di poter cogliere, col tomismo, neo-aristotelismo medievale si ritiene di poter cogliere, un’adeguazione della mente a una cosa esterna, questo non è possibile, per lo meno non è conoscibile, afferma Kant. E c’è una paginetta curiosa - di cui però non ho mai sentito parlare nei testi critici -, nella Critica della ragion pura,* dove Kant fa una distinzione tra quattro forme di nulla, e una è dell’ens rationis che in realtà è questa "cosa in sé" che noi possiamo pensare che regga le cose ma che non possiamo conoscere: come sia la cosa in sé non possiamo saperlo. Noi vediamo sempre questa cosa attraverso degli occhiali che sono propri dell’"io penso".

Dico questo perché quello che fa Kant è dare un fondamento, per esempio - restringendo moltissimo il campo -, alla concezione dello spazio-tempo che è di Newton e che sta alla base della scienza moderna almeno fino alle soglie del secolo scorso - come occorre dire ormai: questo spazio-tempo che è universale, assoluto, uguale in ogni punto dell’universo. Newton che cosa afferma? - non dirò le parole esatte -, considera spazio e tempo come un palcoscenico su cui avvengano i vari movimenti della meccanica, e che per cui è dato per scontato come avente un carattere di sostrato universale. Kant - che deve riprendersi dal sonno dogmatico, quello che gli aveva mostrato Hume - dice la stessa cosa, da un altro punto di vista filosofico, cioè lo spazio-tempo è la forma dell’intuizione esterna, la forma della sensibilità a priori per cui noi possiamo conoscere ciò che accade esternamente attraverso l’applicazione delle categorie e degli a priori dell’intelletto. Tutto questo è rimasto implicito e dato per scontato da tutti fino alla grande serie di rivoluzioni della fisica dell’inizio del Novecento in cui, per primo, Einstein* ha messo in luce che questo spazio-tempo non è per niente qualcosa che è là fuori: lo spazio-tempo è il tessuto dell’universo; attraverso le curvature di spazio-tempo si può spiegare la forza della gravità che altrimenti è una forza che non riusciva a entrare in una teoria unificata - devo andare a grandi linee per cercare di dare un minimo di immagine. Quindi la rivoluzione adottata da Einstein è radicale, modifica un modo di pensare che possiamo attribuire tranquillamente alla specie: lo spazio-tempo newtoniano è lo spazio-tempo della specie arcaica, quella su cui noi muoviamo la nostra esperienza e cogliamo i nostri impulsi sensoriali. Quindi Einstein fece questo grandissimo salto per poter render ragione di alcuni problemi che si creavano nella fisica classica e per l’impossibilità di poter render ragione di questo problema della gravità. Ma anche lui si trovò in crisi davanti a un’altra rivoluzione, quella della meccanica quantistica che pure in qualche modo lui stesso avviò e che, in un libro che è uscito di recente, L’universo elegante,* a proposito della teoria delle superstringhe, è detto bene: si indica il 1927 come l’anno della perdita dell’innocenza: è l’anno del principio di indeterminazione di Werner Eisenberg che enunciò un principio che Einstein, per esempio, non riuscì mai a digerire perché, secondo la fisica classica, anche quella newtoniana, cioè quella newtoniana classica e quella della relatività ristretta generale, lo spazio può esser sì incurvato, essere un tessuto che crea l’effetto di gravitazione, ma è comunque uno spazio-tempo che ha i caratteri della regolarità. Eisenberg invece si trova a dover render ragione di ciò che avviene a livello subatomico, e quindi il suo principio è uno scandalo per lo stesso Einstein, cioè non è possibile, di un elettrone, determinare esattamente posizione e velocità, il principio di causalità salta: dell’elettrone si può dire che, con probabilità, si trova in un certo spazio, ma non dove sia esattamente e quale sia la sua velocità. Questo fa saltare anche il determinismo di Laplace per cui, se noi conosciamo di un oggetto tutte le sue caratteristiche, possiamo proiettare all’indietro e al futuro la sua interazione col reale. E questo salta. Si è costretti a modificare radicalmente la concezione di spazio-tempo che è di fronte a Homo sapiens dalla sua origine nella savana. Questi sono due aspetti della rivoluzione.

L’altro scandalo è che queste due grandi teorie, che funzionano benissimo nei loro ambiti, sono però in contrasto, e non è possibile pensare che la natura adotti princìpi diversi a seconda che si tratti del mondo mascroscopico o del mondo microscopico. Per ovviare a questo gravissimo problema, ignorato spesso perché non era stato possibile trovar modo di venirne a capo, dagli anni ’70 in poi si hanno due rivoluzioni, dette delle stringhe o superstringhe: l’ultima rivoluzione risale, così parla quel testo di Brian Green,* a cinque anni fa.

E c’è un ulteriore scombussolamento radicale dello spazio-tempo, e non solo di quello. Cioè, quell’uomo barcollante, che abbiamo citato spesso, ora rischia di non trovare più neanche uno spazio sicuro su cui poggiare il piede. Per ovviare a questo problema si teorizza che le particelle elementari non siano puntiformi, ma siano stringhe vibranti, stringhe della lunghezza di Planck, che è una cosa pazzescamente piccola, che probabilmente non sarà mai osservabile, e questo già connota un salto che la fisica teorica del ‘900 ha fatto rispetto alla fisica del secolo prima, per esempio, per cui, come ho accennato l’altra volta, è il fisico sperimentale che arranca dietro ciò che il fisico teorico cerca di elaborare per dare conto di alcuni fenomeni. Allora, questa stringa vibrante, che fa venire in mente echi pitagorici e armonia del cosmo, è come una microscopica corda di violino unidimensionale che vibra in questa sua oscillazione - la teoria è lunghissima e complicatissima, nelle sue varie vicende prende forme diverse: è bidimensionale o addirittura tridimensionale. Si nota che, attraverso i vari modi di vibrazione, questa oscillazione che ha lo spazio-tempo - come un tessuto, un tessuto che ha più dimensioni, addirittura fino a undici dimensioni, oltre a quelle quattro, se comprendiamo il tempo che considerava Einstein, alcune arrotolate, più che subatomiche: la lunghezza di Planck, per fare un esempio, equivale, se noi portiamo il protone di un atomo a grandezza dell’universo… una stringa avrebbe l’altezza di un albero -, però, il fatto che [la stringa] non sia puntiforme, che oscilli, permette che questo spazio-tempo, questo spazio, oltre ad avere queste undici dimensioni, quindi qualcosa che va al di là completamente di quello che noi possiamo pensare ma che è matematicamente dimostrabile e che occorre pensare - quindi non c’è più il fatto sperimentale che guida e crea un’induzione teorica -, dia ormai luogo a esperimenti mentali, a ipotesi che la mente costruisce e che poi tenta di porre in modo sperimentale, anche se questo campo sperimentale non si riesce a cogliere, in questa teoria delle superstringhe, perché richiederebbe strumenti di cui ignoriamo persino i criteri.

Dicevo che queste stringhe vibranti, che creano queste varie dimensioni, consentono lacerazioni, addirittura, dello spazio che non sarebbero pensabili, ad esempio, con una teoria delle particelle elementari puntiformi, per cui abbiamo degli spazi che si lacerano senza esiti catasfrofici proprio grazie a queste vibrazioni, queste oscillazioni coerenti - viene detto in diversi punti del testo - di queste varie stringhe, per cui questo spazio si crea, si lacera, si modifica, crea dimensioni arrotolate che sono assolutamente necessarie per render conto di alcuni fenomeni.

Questa musica del cosmo che la fisica teorica attuale disegna è quanto di più lontano sia, nell'esperienza comune. E questo è sorprendente, cioè pone l’interrogativo di come, visto che la mente umana riesce a cogliere la necessità di undici dimensioni, di come fare a disancorare la vista dell’uomo da questo palcoscenico naturale che ha sempre avuto dinanzi agli occhi: questo può avvenire attraverso una mancanza profonda, quella che, in un racconto di Paolo Ferrari, una novella ateologico-scientifica,* è descritta come… in cui l’atto di creazione è questa vibrazione, questa anti-anti-vibrazione che rientra in sé, in questo nulla, e crea la possibilità perché l’universo pensante possa porsi - qui è difficile anche usare le parole perché, come ha spiegato molte volte Heidegger, si finisce col parlare dell’ente. E questa vibrazione creatrice che non crea cose, che rientra nel nulla, è anche in altre assonanze della fisica teorica attuale, e ciò è notevole: A volte queste vibrazioni che creano spazi in cui ci sono buchi… lo stesso buco nero, forse… la teoria dei buchi neri è una specie di metafora scientifica di questo rientrare attravero l’orizzonte degli eventi, come è definito il punto in cui tutto cade nel buco nero e scompare. Questa era l’ipotesi, tra l’altro, fino a pochi anni fa, perché Hawcking ha dimostrato che il buco nero emette una radiazione per motivi complicatissimi che non è certo il caso di esporre qui. Per cui sembra che in questo buco nero poi ci sia un qualcosa che poi torna in altra forma. E questi son tutti tentativi del pensiero di uscire dal palcoscenico.

Allora, quello che noi tentiamo di fare non riguarda le superstringhe ma il tentativo di oscillazione che sia anti-anti-se stessa e, così facendo, si crea un vuoto - che non è un buco nero, in cui, sì, le cose cadono perché cade la loro ragione d’essere - e può apparire ciò che non è probabilmente definibile con il linguaggio nostro che ci porterebbe a riparlare di cose.

Qui bisognerebbe fermarsi, sulla soglia di questo orizzonte degli eventi, e vedere come, su quella soglia, venire meno.

Paolo Ferrari: Leggerò un altro racconto che abbiamo distribuito: Oblio e offesa. *

“Un giorno Dio, dopo averci pensato su non poco, oltre alle cose e alla loro presenza non disgiunta dalla memoria le cui tracce occorrono per costruire il mondo, inventò e diede origine all’oblio e all’assenza. Fu così che la materia incominciò ad evolvere più liberamente da un’antica fissazione, con minor accumulo e maggiormente vuota di quanto fino allora era riuscita. Portava in sé l’ipotesi non certamente astrusa, come ai primordi s’era creduto, di vantare un giorno un impasto così astratto e acuminato da identificarsi con l’intelletto umano onde gareggiare ad armi pari con chi, avendola generata, cinicamente l’aveva tradita. Essa aveva a lungo tra sé e sé rimuginato, mortificata e offesa, ritenendosi vittima della cosmica omissione di un dio preda fin troppo facile dell’indifferenza”.

Con questa novelletta è introdotto, come dicevo prima - e riprendendo i discorsi di Susanna, il discorso di Luciano - il fatto di quanto, già nello statuto della mente umana, sia importante che sia stato concepito e si concepisca e che nella memoria sia implicito l’elemento della dimenticanza, il fattore dell’oblio: immaginatevi, se non avessimo questi sistemi che sono capaci di cancellare, quanto accumulo di tutte le tracce, di tutte le presenze di un mondo che continua ad accumularsi, di un mondo fatto di cose. Ovviamente questa dimenticanza deve avere delle leggi, deve disporsi in modo tale che questa non cancelli continuamente tutto il sostrato della memoria per quanto Homo sapiens fino adesso si è comportato, perché sulla memoria viene costruita la storia dell’individuo, la storia della specie, la storia delle civiltà. Ma contemporaneamente, già nella storia delle civiltà, alcune civiltà hanno intrinseca questa… portano con sé il fatto della traccia.

L’introdurre questa dimenticanza è importante anche in questo sistema in-Assenza perché è come se questa assenza avesse in sé il fattore della totale dimenticanza, cioè della totale perdita della traccia, ma questa perdita della traccia non significa il fatto che il sistema non sia in grado di muoversi entro una struttura cognitiva, entro un processo mentale, ordinato e ordinario: noi abbiamo una mente che, si dice, è una struttura cognitiva, cioè che adopera lo spazio, il tempo, il linguaggio, le forme, le distanze, le relazioni, i rapporti; e questo è la mente cognitiva. Ora, la mente cognitiva è, in un qualche modo, anche analoga a quella dell’animale: l’animale si costruisce un territorio, si costruisce uno spazio entro cui muoversi; l’animale però comunque ha questo territorio in cui ci sono tutti gli elementi, o quasi tutti gli elementi, ormai fissati una volta per tutte. Io dico che in-Assenza la mente cognitiva sia liberata da queste tracce preordinate o prefissate che son state quelle dell’animale precedente all’uomo. L’attività pensante è ben diversa dall’attività pensante, dall’attività cognitiva dell’animale. L’attività cognitiva dell’animale fissa dei punti, risponde a degli stimoli, organizza il mondo secondo determinati schemi non modificabili, cosiddetti naturali. In-Assenza questi elementi vengono svuotati dei loro contenuti, di questi contenuti di fissazione; attraverso questo svuotamento, questa perdita di concretezza, di concretizzazione o di fissazione, nasce un universo il quale ha un comportamento completamente differente dal comportamento dell’universo che, di solito, la mente cognitiva umana, di Homo sapiens ancora sottoposto alle tracce dell’animale, si porta appresso. Ma, in più, introduco ulteriormente questo elemento della dimenticanza: è come se, anche [in] questo sistema in-Assenza il quale, nella sua struttura generale, per potersi spiegare, per poter dare linguaggio, per poter dar forma, ha costruito fino adesso una serie di immagini-strutture, forme cognitive, in un certo senso attingendo a quelle che sono le idee iperuraniche di Platone, a questo mondo delle idee, mi si introduce[sse] sempre di più il fattore dimenticanza, il fattore oblio, il fattore del venir meno stesso della mancanza della mancanza; cioè la mancanza, che è un’entità e, comunque, una categoria, è un essere di meno: anche questa comincia a venir meno, a farsi più vuota, e cioè il sistema diventa ancora più a-sistema, assume la libertà di essere altrimenti. Allora, anche in questo momento, nel momento stesso in cui sto cercando di spiegare questa mancanza di fissità, questa introduzione dei punti che vengono meno, dell’oblio che lo stesso sistema in-Assenza pone, o il sistema in-Assenza pone su se stesso, è la difficoltà di dover ancora una volta porre, è l’infinita contraddizione che, appunto, una mente cognitiva che sto adesso adoperando per spiegare, per parlare, per porre linguaggio, rispetto a questo sostrato in-Assenza al quale non importa del fatto della mente cognitiva, della struttura della mente cognitiva, pone la contraddizione e, come diceva Luciano, pone il suo essere nulla, questo nulla-facente, ma che non è un nullafacente il quale è, così, pigro, non vuol far niente: è nullafacente in quanto in questa posizione di ulteriore condizione in cui non occorre il fare, non occorre l’oggetto, ma in cui diventa fondamentale il mancare, il disporsi in mancanza. Certamente, come vedete, non è che io sia qui, mi ritiri, mi chiuda dentro il mio mondo autistico o altro: pongo questa mancanza. Me ne sono accorto, per esempio, negli ultimi pezzi di musica che stavo facendo in cui mi son messo a raddoppiare certa musica di Sciarrino, che è una musica appena soffiata, c’è un’orchestra intera di cento flauti, suona in certi momenti soltanto tocchettando sopra allo strumento, quasi non s’ascolta, cento voci che diventano quasi un soffio, e mi son messo a lavorare intorno a questi elementi che, anche nella loro espressività, sono mancanti, sono privi di una loro materialità, di una loro sostanzialità. Io sempre avevo detto il fatto che, appunto, il sistema in mancanza o in-Assenza non significava il fatto che questo non dovesse essere o cioè che i colori non dovessero essere così squillanti, rossi verdi gialli blu, potenti, come d’altra parte sono le mie espressioni spesso anche linguistiche, le mie espressioni anche artistiche, ma adesso anche questi tendono a ritirarsi: appunto, dicevo, me ne ero accorto incominciando a lavorare su quest’oblio, sulla dimenticanza la quale non è rimozione, non è una dimenticanza inconscia, è una dimenticanza consapevole, è un a-sistema il quale dice: "Dimentichiamoci delle nostre leggi, lasciamoci attraversare da leggi probabilmente nuove". Infatti, in questi ultimi giorni, sento continuamente attraversato tutto il fisico, tutto il mondo fisico, per modo di dire, quello che è fisico in-Assenza, da vibrazioni, da stati particolari che arrivano dalla mente, da processi di altri, mi sento attraversare da masse, da vibrazioni assolutamente particolari che derivano dalla presenza concreta di certi oggetti o di certe menti o da certe disposizioni dei corpi altrui che si dispongono in un certo modo.

Quello che ho detto sempre è che questo a-sistema è come se fosse, avesse cessato di esistere, avesse cessato di vivere, e quindi si dispone in morte, in-Assenza di sé. Questa cessazione è quella che dispone il fatto che, in quanto cessazione - rispetto al titolo che abbiamo detto -, in quanto in-Assenza, dispone del fatto che si muova un’ulteriore presenza, la quale presenza non è percettibile, è altra, è altrimenti, però nello stesso tempo è percettibile perché sono qui, ne sto parlando; è comunque vibrante di una vibrazione in-Assenza, di un’antivibrazione, come diceva Luciano. Cioè, tutta la fisica teorica contemporanea si sta interrogando su che cosa siano state queste vibrazini iniziali, che cosa sia questo Big bang, questo nulla iniziale da cui è nato l’universo. Io dico che prima di tutto dobbiamo fondare questo nulla: è come se dio non avesse fondato il nulla in Occidente. Ma il nulla non è nessuna cosa nei termini occidentali, il nulla è un’altra entità; in un altro racconto dicevo che è un’entità che è simile a quella del vuoto, ma non è vuota totalmente: è altra. Essendo altrimenti da tutto quello che è stato pensato, da tutto quello che si vede, è analoga al nulla perché, rispetto a quello che la mente pensa, rispetto a quello che l’universo è, rispetto a questa corrispondenza, ammessa la corrispondenza di tipo diverso, un’ipotesi in-Assenza, una consistenza in-Assenza, c’è un mancare, questo mancare fonda il suo mancare stesso, e questo è un nulla.

La mancanza è un buco; è, come diceva Susanna, penìa, penuria - da penìa viene penuria -, quindi povertà. Penuria è fecondata, nel mito, nel racconto di Platone, da Poros che vuol dire accesso, vuol dire espediente, vuol dire mezzo attraverso cui. Per cui noi abbiamo penuria che è un nulla, è povertà: la penuria. La penuria è fecondata da un qualche cosa che è un espediente per attraversare qualche cosa, oppure poros è anche il poro, il vuoto, l’accesso. Quindi penuria è fecondata da accesso, quindi da un altro vuoto, e questo dà luogo a eros il quale è quest’entità sconosciuta o vacillante, oscillante, o capace di nulla.

In più introduciamo stasera questo altro elemento, questa dimenticanza, cioè quasi che questo a-sistema diventa ancora più a-sistema, cioè pone ancora di più la sua dimenticanza, non si pone su questi fondamenti. Sto cercando, in un certo senso di scivolar via, scivolar via ma in senso creativo.

D’altra parte facciamo questo discorso perché, anche se mi rifaccio a un aforisma di Nietzsche - che non conosco interamente, adesso non me lo ricordo interamente - ne La gaia scienza,, che è anche citato in un articolo recente che ho trovato in questo periodo, già Nietzsche si poneva questo problema, e cioè che noi siamo continuamente bombardati, cioè l’essere è continuamente… la vita presa attraverso gli oggetti, le cose; ma gli oggetti, le cose sono anche questi scomparsi, sono diventati ancora più apparenti perché hanno assunto il nome: noi diciamo tappeto, uomo, donna lavagna, ma queste sono entità nominative, non sono niente: sono un’astrazione, come diciamo noi, sono già un luogo che comunque, rispetto alla cosa, è un’assenza, ma la cosa in sé, come diceva Luciano, non è conosciuta; Kant dice che la cosa in sé non si può conoscere, è un vuoto, non è niente.

D’altra parte noi possiamo prendercela con questo microfono, con questa sedia, con questa cosa, con questa persona, prendercela con tutti questi elementi perché esistono, perché son lì, concreti, e non pongono la possibilità del passaggio, della non resistenza, dell’iperconduzione, come abbiamo già detto altre volte. Allora, e concludo - d’altra parte volevo introdurre questa dimenticanza perché mi sta attraversando tutto quanto -, non basta, sono costretto, pur nella dimenticanza, nella penìa - poros, penìa, in eros -, in questa penuria che, nello stesso tempo, è ricchissima anche se produce dei malesseri improvvisi attraverso questi passaggi di vibrazioni, di energie violentissime, sono obbligato a dare questo elemento di presenza, di ricchezza perché, come dice giustamente Nietzsche ne La gaia scienza, queste cose sono nominate ma non possiamo… anche se diciamo: “Ma guarda come è stupida questa sedia, cosa ci sta a fare questo oggetto, quest’altro…”, di tutto questo mondo de La gaia scienza, di questo mondo scientifico, di questo mondo che ci circonda, cosa ce ne facciamo? Lo possiamo prendere in giro, possiamo dire che non c’è ma, comunque, non possiamo agire per sottrazione, non possiamo dire che questa sedia non c’è. E, infatti, noi diciamo, io dico "questa sedia non c’è" però, nel momento stesso che dico "non c’è", debbo costruire tutto un universo che sia capace al suo interno di queste nuove interazioni, assenti, che sostituiscano questa sedia la quale non c’è; cioè, soltanto in quanto io riesca a produrre un altro universo il quale è in-Assenza, allora questa sedia può scomparire, questo microfono, oltre che avere questa ottima materia - essendo Neuman, questa materia è magnifica per registrare -, può lasciarmi passare, attraversare attraverso la mia penuria, attraverso il mio accesso, il poros, e produrre questo eros. Allora dice Nietzsche: "Nur als schaffende", "soltanto in quanto creatori", allora possiamo sostituirci a questi oggetti, a questo mondo. Allora io dico: "Soltanto in quanto schaffende, cioè creatore, creatore in-Assenza, e quindi sostituisco… allora faccio dei quadri, la mia musica - adesso suoniamo con Lisetta -, attraverso tutta questa creazione, infinita quasi - eppure mi sento nella penuria, vorrei star lì…-, sostituisce, attraverso queste nuove leggi, queste nuove forme, un suo luogo il quale ha questa capacità di essere più vuoto, più assente; anche perché mi accorgo… noi vediamo, attraverso questo Centro, delle persone che vedo che stanno imparando, per esempio, nuovi tipi di sintesi - nuovi processi sintetici - la quale sintesi non è quella sintesi di vecchio tipo, fissata, ma è una sintesi la quale è smossa e bucata in qualche punto. E questa sintesi è questa asimmetria, è questa penuria, nell’asimmetria, che continuo a produrre, che continuo a comunicare: io comunico un’asimmetria, comunico comunque questa penuria o questo accesso.

Allora, come dice la fisica teorica… la fisica teorica che cosa fa? Si interroga, sta continuamente cercando quest’elemento sempre più piccolo, magari diverso, però, in quanto non è capace di venir meno o di pensare un’assenza o pensare il nulla assente o creare questo nulla, non verrà mai a capo di un reale fatto di nuova legge, nuovo stato il quale dica, come ci sta arrivando, il fatto che ci son nuove sostanze, nuove materie, le quali nuove sostanze, nuove materie, però, la mente, com’è attualmente, non può recepire, ma riesce attualmente a riconoscerle o ad avvicinarvisi molto attraverso gli strumenti che ha, attraverso la matematica. Allora è perché la mente si è svuotata attraverso dei processi matematici che conosce qualche cosa; si è svuotata della sua sensibilità, delle sue emozioni, attraverso questo però; senza questi altri elementi, con la mancanza dei sentimenti umani, la matematica non può conoscere questo altro luogo che è ancora più vuoto, il cui passaggio a poros è attraverso il sentimento umano, e il vuoto attraverso il sentimento umano.

Va be’, mi fermo.

Renata Rainieri: Puoi ripetere quest’ultima cosa, Paolo?

Paolo Ferrari: Il sentimento umano - questo è abbastanza consolatorio ma, insomma, ammettiamolo pure… cioè dico che la fisica si interroga attraverso dei teoremi, la matematica costruisce dei teoremi magnifici, magnifici, attraverso questi teoremi arriva a certi punti in cui sta dicendo "non c’è nulla" o "c’è questo nulla, c’è una nuova sostanza". La sensibilità, l’emozione, la corporeità non arrivano a questo punto, non ci sono mai arrivate, infatti tutte le strutture che partono dall’emozione, dalla sensibilità non sono riuscite a immaginarsi o a poter costruire un punto così distante, così vuoto da potersi prevedere l’esistenza di un’alterità, di un nuovo campo, di una nuova sostanza, di nuove vie. Però contemporaneamente io dico che questa matematica molto probabilmente, forse, in quanto non si porta appresso il sentimento umano - e cioè quindi tutto l’elemento corporale, somatico - ma a un certo punto se ne distacca e diventa troppo distante e si distacca, quindi non passa, non buca il sentimento umano, l’elemento somatico, questa penuria insieme a poros che dà eros, non può pensare, non può arrivare a pensare il fatto che c'è un nulla di nuovo tipo: questo sarebbe proprio una nuova fondazione, la rivoluzione, che sarebbe questo stato in-Assenza. Può arrivare sulla soglia e dire: “Sì, a questo punto non c’è altro se non questo nulla”; o l’ipotesi di quello che dice questo libro - un libro dalla sostanza oscura -, di una quintessenza, di un’essenza diversa di cui non può disporre perché non riesce, con questo strumento matematico, a bucare il corpo: lo strumento matematico diventa soltanto uno strumento mentale, non ancora corporale. Il corpo dev’esser bucato per passare dall’altra parte, bucato nel senso che dev’essere assunto e bucato.

Allora, adesso suoniamo con Lisetta. Con Lisetta suoniamo dei pezzi - e sono tre pezzi - che ho composto ispirandomi agli ultimi pezzi di Listz, alle ultime composizioni listziane che, per combinazione - ci sono anche questi elementi coincidenti -, Pollini ha suonato recentemente, in un concerto a Roma, credo; li ha proposti, mentre di solito i pianisti non li propongono perché sono dei pezzi molto astratti, non molto complessi da un punto di vista tecnico, ma molto vuoti. E questa materia che si desensibilizza e sensibilizza nello stesso istante per diventare altra, che quasi si deforma, cioè c’è la struttura armonica che sta passando a un fatto quasi… la tonalità sta passando verso una atonalità: è lì che si mantiene in mezzo. E io ho composto questi pezzi pensando a tutte queste fasi di transizione, cioè questi vuoti in mezzo tra… questo qui è il passaggio tra Ottocento e Novecento.

Qui ci sarebbe un lunghissimo discorso da aprire, ma basta, ne abbiam già abbastanza, se no la dimenticanza dove la mettiamo?

L'unica cosa che voglio dire è che Lisetta interpreta questo pezzo in maniera assolutamente particolare, e adesso lo sentirete ma lo anticipo perché è interessante: io con l’altro pianoforte interverrò molto poco perché lei ha raggiunto un’interpretazione di questo seguendo tutti gli elementi della scrittura in partitura, anche elementi cosiddetti agogici - cioè dei piccoli passaggi che possono essere il fatto della mano posta sul pianoforte, e quindi il computer che segna certi passaggi minimi delle dita -, lei li ha seguiti tutti, e produce una compiutezza che è come se fosse un cerchio che lei pone intorno a sé in cui non me la sento quasi di entrare perché ha un suo luogo, e un suo luogo compiuto; ha una sua forma, una sua forma specifica, finita.

Adesso vediamo che cosa succede.

Nella prova di ieri proprio succedeva questo: questo luogo rimaneva, in un certo senso, incontaminato, si apriva ma rimaneva incontaminato, lei lo assumeva, lo possedeva, quasi entrasse su questo nuovo stadio di altra materia in cui l’io muore e "Assenza sia fatta", cioè il suono - a proposito delle stringhe -, il suono avvenga. Si sentiva ieri anche proprio la grande scuola del Maestro Tei: questo modo di porsi sul pianoforte e di non smuoversi.

[Paolo Ferrari raddoppia al pianoforte tre pezzi da lui composti ispirandosi a Listz, e suonati da Lisetta Carmi. Durata 11’ circa]

Paolo Ferrari: Allora, con questi pezzi così… di dissoluzione della materia, di trasformazione; anche così drammatici, in un certo senso: l’ultimo Liszt è drammatico. Questo è Venezia e la gondola che passa e porta il morto. E sembra appunto che sia morto il secolo, quasi la trasformazione del secolo, la trasformazione della musica, la dissoluzione. Come anche quando Tiziano rompe la forma e tutto diventa un impasto di colori e diventa… elementi primari, ma anche con questi linguaggi così potenti, con il [parola incomprensibile all'ascolto] avevo messo da parte un po’ la dimenticanza, però di fondo c’era. E stasera invece potevo entrare di più. Sarà interessante confrontare le due interpretazioni. E’ interessante vedere le due cose.

Vi saluto caramente.



* P. Ferrari, Novelle e racconti in-Assenza, opera in progress.

* P. Ferrari, III Saggio sull'Assenza. Un approccio non noto alla differenza del ciclo di vita e di morte consueto, in Le lezioni dell'Assenza. Levie (assenti) del nuovo pensare, Campanotto Editore, Pasian di Prato (Ud), 1994.

* S. Freud, Al di là del principio di piacere, in Opere, Vol. IX, ed. Boringhieri, To, 1980.

* U. Galimberti, Poros e Penìa, in Testuale, N. 27, gennaio-giugno 2000, ed. Astrolabio, Roma, 2000.

* I. Kant, Critica della ragion pura, (Nota all'Appendice all'"Analitica dei principi"), 1787.

* A. Einstein, Sulla teoria della relatività ristretta e generale (esposizione divulgativa), 1916.

* B. Green, L'universo elegante. Superstringhe, dimensioni nascoste e la ricerca della teoria ultima, Einaudi, To, 2000.

* Ibidem

* P. Ferrari, All'inizio d'un mondo nuovo. Una novella ateologico-scientifica intorno alla Teoria delle Superstringhe (dall'attuale fisica teorica), in A differenza dell'Essere: racconti e novelle in-Assenza, opera in progress.

* Ibidem