Lo sguardo oscillante
Oltre l’occhio fotografico

di
Luciano Eletti

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La fotografia offre l'opportunità migliore per cogliere ciò che nello sguardo è implicito, ciò che nel vedere è retaggio dell’Occidente, quindi può di principio aiutarci a oltrepassarlo. Può condurci anche più lontano, a scorgere la tensione alla fissazione dell’immagine che proviene dall’eredità animale e che nel lungo corso evolutivo è rimasta inalterata, in contrasto con la crescente complessità che il cervello umano imparava ad elaborare e a generare.
Nella fotografia l’occhio dell’Occidente si è riconosciuto, per mezzo suo, distaccandosene dopo avervi dimorato affascinato dal rispecchiamento, può iniziare a oscillare alla ricerca di una nuova realtà, consona alla capacità di astrazione della specie Homo sapiens s..
Nella ‘teoria’ intesa come il ‘vedere con la mente’ è già implicata l’inadeguatezza dell’occhio al cervello di cui è propaggine, nonostante (o in parallelo con) la decisa preminenza dell’atto visivo nell’ambito delle sensazioni. La fotografia esprime lo spirito dell’Occidente in quanto porta in sé il suo sentire intimamente visivo in relazione con l’oscillare della cosa (l’ente in cui l’essere si coagula) tra l’essere e il nulla. È la volontà di immobilizzare il presente e il tentativo di ancorare qualcosa all’essere fissandone l’esistenza, nella consapevolezza della temporalità e dell’inevitabile corsa verso il nulla. L’intera metafisica è sottesa in ogni fotografia.
Ciò è vero anche quando il fotografo si illude di cogliere il reale, contrariamente al pittore platonico che dipinge l’apparenza di un letto già copia dell’Idea: il salto nella realtà che l’immagine fotografica sembra garantire presuppone lo statuto imitativo dell’immagine stessa. Laddove, come nel mondo egizio o mesopotamico, la figurazione è volta alla conoscenza dell’oggetto rappresentato secondo una somiglianza ‘logica’, la preoccupazione dell’imitazione della natura o del superamento della mimesi è ignota. A partire dalla Grecia del V secolo a. C., l’Occidente mira alla verosimiglianza ‘ottica’ e naturalistica, non è interessato alla rappresentazione intemporale, statica, conforme a taluni modi fondamentali di vedere, ma a cogliere il valore del momento pregnante, scopo impossibile da raggiungere senza una razionalità metafisica che sappia riconoscere, nel fenomeno, il tralucere dell’Idea. Se il vedere è un pensare implicito e per lo più inconsapevole, l’immagine fotografica è un modo di pensare, un vedere carico di pensiero.
Col Rinascimento si afferma la rappresentazione prospettico-matematica, che presume un’immagine perfetta, fedele dell’istante, monoculare. Nella parte di mondo che ha ritenuto poi un’ovvietà la sua naturalezza, la prospettiva ha educato a guardare in modo fotografico, a considerare l’apparecchio fotografico (una camera oscura appena modificata da una lente, una meccanica e dall’utilizzo di un procedimento chimico) come la macchina delle immagini assolutamente fedeli. Lungi dall’essere una visione naturale, liberatasi infine dalla raffigurazione ‘gotica’, la prospettiva presuppone, per costruire uno spazio razionale, infinito, omogeneo, ipotesi tanto fondamentali quanto innaturali: che vediamo con un unico occhio immobile; che la nostra visione sia resa adeguatamente dalla sezione di piramide il cui vertice è il punto di fuga; che vi sia coincidenza piena tra immagine visiva, fenomenologicamente orientata e psicologicamente condizionata, ed immagine retinica, otticamente determinata dalla fisiologia oculare; ignora d’altra parte che in tale immagine retinica gli oggetti non sono proiettati su una superficie piana e che il campo visivo ha forma sferoide. La prospettiva, finendo col dimenticare la discrepanza tra la realtà e la sua costruzione, che taglia ogni relazione con lo spazio psico-fisiologico effettivamente esperito, riduce la complessità del vedere, limitato sub specie photographiae. Oltre che come volontà di sistematizzare il mondo esterno e di ampliare in ciò la sfera dell’io, si può concepire la teorizzazione prospettica sia come un principio di realtà distanziante (un porre le cose alla ‘giusta’ distanza) sia come un processo di annullamento fusionale (e di dominio) della distanza. Nell’oscillare tra il conato di astrazione dalla realtà e il tentativo di astrazione della realtà, di astrarre la realtà in modo non puramente idealistico dalla visione ancora animale in quanto a struttura fisiologica, la prospettiva ricade nell’ambito di un perfezionamento dell’antico vedere che è anche una sua distorsione, ma senza superamento.
La visione prospettica si fonda sulla concezione euclidea di uno spazio indifferenziato e informale, accolto da Newton, trasformato da Kant in rappresentazione a priori posta a fondamento dell’intuizione esterna; riducendo il vedere a processo meccanico, essa ne richiede una rieducazione psicofisiologica forzata, funzionale alle esigenze dell’astrazione geometrico-matematica: tutti i punti dello spazio sono uguali, privi di qualità e forma, la forma è conferita dall’occhio dell’osservatore, inerte quanto lo spettatore teatrale. L’esperienza è invece una rappresentazione unitaria complessa di visioni successive, costituisce una sintesi di sensazioni e di pensieri, una forma che coglie la dinamica discontinuità dello spazio.
Divenuta pratica comune in tutto l’Occidente in cui ha permeato il modo di vedere e di pensare l’immagine, la prospettiva è altrove rimasta estranea alla figurazione, non solo in Paesi lontani, ma nella stessa Europa non toccata dal ritorno della grecità, dall’influsso della scienza araba e dallo sviluppo delle discipline naturali e matematiche. La visione sottesa alla pittura di icone è profondamente diversa. L’icona si connette alla maschera egizia quale sua origine, alle pitture della mummia e del sarcofago sui quali non occorreva e non si doveva dipingere le ombre, sia per motivi artistici (non erano oggetti piani) sia per principi simbolici (il morto entrava nel regno della luce e niente di ottenebrante e infausto si poteva dipingere): il compito era di configurare l’essenza ideale del defunto. L’icona non è imitazione dell’originale, ma l’originale stesso, una sua evocazione; è il punto di unione tra il mondo visibile e quello invisibile; la porta per la quale Dio entra nel mondo sensibile. Il pensiero che presiede alla pittura di icone risulta estraneo all’oscillazione tra essere e nulla messa in luce dalla filosofia greca (lo scandalo insostenibile secondo cui della medesima cosa, siccome è immersa nel divenire, si deve predicare che è e che non è, per dar risposta al quale il pensiero greco genera il platonismo); ma è questa oscillazione che, tramite la rappresentazione naturalistica prima e la fotografia poi, rende pensabile e necessario fissare una frazione dello scorrere del tempo; il tempo stesso diviene "una immagine mobile dell’eternità".
Pertanto in Occidente l’immagine, anche laddove paia più atta e prossima al godimento estetico, esprime, contenendole, l’arte dialettica così caratteristica del logos e la sua potenzialità di relazione con l’Idea. È difficile esagerare tale tensione interna all’immagine quanto è facile che passi inosservata. Eppure nel Cristianesimo il nesso tra il vedere e il credere è fondamentale ("Perché mi hai veduto, mi hai creduto"; "beati i vostri occhi perché vedono…molti profeti e molti giusti desiderarono vedere ciò che voi vedete, e non lo videro"), in accordo con la mentalità greca e latina e in netto contrasto con la negazione ebraica della figurazione. L’immagine è di ciò che è assente-presente.
Com’è pensabile uno sguardo che si affranchi dall’a priori fotografico, dalla teoretica dell’immagine in cui siamo immersi da sempre? Non dovrebbe apparire, rispetto a quello noto, uno sguardo assente? Che coglie un nulla? Ovvero un qualcosa per cui l’occhio assuefatto alla fotografia non ha retina, coni e bastoncelli? Non dovrebbe essere una visione ultraretinica? Uno stadio del vedere sganciato, sia pure di poco, dalla sua fisiologia, più consono e in sintonia con la neocorteccia cerebrale, quella del pensiero complesso? Che accetta l’oscillare degli elementi posti sotto l’occhio senza fissarli univocamente e li lascia interagire in relazioni autonome e perciò significative? Non potrebbe definirsi uno sguardo oscillante?
Se lo scatto fotografico ferma il fluire del mondo in una falsa stabilità, tale sguardo, togliendo le immagini di cui il mondo si compone, tende a farlo scomparire, sottrae la traccia di permanenza (una specie di scia) delle cose. La fotografia ha agito sinora non solo come testimone e impronta di una realtà costruita sulla sua medesima base ‘teoretica’ irriflessa, motivo per cui il simile non può che trovare il simile, ma anche e particolarmente come mediatrice di una coazione a ripetere del vedere tipica dell’animale. Questi è occupato dall’urgenza di individuare i pericoli, la preda o il predatore, la femmina, la prole, di ritrovare la via della tana, di cogliere i movimenti del branco. La reazione allo stimolo visivo è immediata; nessun distacco è interposto; il mondo ha il solo compito di rispondere a pochi vitali interrogativi e a ciò si riduce. L’uomo gode di ben altra libertà; eppure non sa liberarsi dell’assillo, non più così funzionale già nei suoi progenitori, a definire con immediatezza ciò che vede, a disegnare contorni a quanto lo circonda, a staccare ‘oggetti’ dall’insieme. Il vedere di Homo sapiens s. non è un vedere in relazione; perciò non coglie l’alterità.
Sarebbe necessario che il fotografo Homo sapiens s., nell’atto di vedere e scattare, esperisse il cessare dell’esistenza di sé e delle proprie intenzioni perché la realtà emerga chiara e sottile. Annullata l’implicita onnipotenza del vedere, il mondo tenderebbe ad organizzarsi autonomamente e ad offrirsi quale altro dell’attività visiva. Niente rimarrebbe della realtà fotografata finora.
Sottrarre per mezzo della fotografia l’immagine proiettata sullo specchio del mondo, sul fondo della caverna, inizia a liberare la vita. Tale sottrazione produce la sorpresa della differenza, anche impercettibile, rispetto alla realtà osservata prima. Grazie alla costante che è differenza l’oggetto muta alla radice, scioglie il coagulo dell’ente.
Una nuova teoria (che sottintende una nuova prassi) della visione, prendendo atto delle semplificazioni operate dall’organo di senso, dell’arretratezza evolutiva dell’occhio rispetto alla neocorteccia, si volge all’inclusione di elementi sinora ritenuti estranei al vedere, ponendo fuori gioco la naturale ed arcaica psicologia della forma tendente alla riduzione, all’unificazione. Il vedere non si accontenta di riconoscere cose ed accetta che nel campo entrino e rimangano in oscillazione libera n elementi, la maggior parte dei quali non sono riconducibili alle vecchie forme e non compongono alcun quadro, lasciando agire quanto è possibile la complessità. La vista deve divenire complessa almeno quanto il cervello che la guida, imparare a vedere il nulla delle cose (tolta l’intenzionalità di identificare cose, quale cosa resterebbe?). Gli n elementi da lasciar oscillare non sono solo un fatto ottico; tale è il loro lato esterno; devono poter essere connessi alla loro radice sul piano affettivo, nella modalità più ampia e potenzialmente rischiosa (la riduzione consegue dalla paura del dolore: laddove l’animale reagisce istintivamente e nell’immediato al dolore fisico, l’uomo restringe il campo al dolore non fisico che gli è proprio).
Lo sguardo oscillante è innanzitutto affettivo. Il visibile può farsi ricettacolo dell’intera storia della persona e, al di là di essa, di Homo sapiens s. e della sua cultura. Al limite lo sguardo oscillante include l’intera esperienza umana, a partire dal giorno in cui una scimmia mal riuscita, cacciata dagli alberi dai primati arboricoli, si inoltrò nella savana, territorio dell’ignoto, barcollando nell’andatura bipede. Tale lontano evento, del resto, fu tutt’altro che marginale per una preistoria dello sguardo: la postura eretta abituale (insieme con la deambulazione eretta a passi lunghi e sciolti), divenuta necessaria nel nuovo ambiente, incrementò l’importanza del vedere e modificò la stessa vita affettiva. All’inizio vedere e affettività camminarono insieme.
La storia personale inclusa nello sguardo oscillante chiarisce quale "Calvario dello Spirito", fattosi vuoto del dolore istintivo e violento, formi il vedere ultraretinico, come la temporalità sia fattore attivo se tenuta aperta allo svolgersi di una razionalità affettiva. Alla temporalità si connette una spazialità affettiva. Quante più stratificazioni storiche lo sguardo tollera senza tagli, timore e ingombro, tanto più lo spazio si arricchisce e n spazi geografici, in retroazione, si rivelano come moltiplicatori di complessità. Spazio, tempo, affetto, ragione sono implicati.
In generale, secondo il Principio d’Inclusione (di realtà), quanta più complessità, in termini di pensiero, di esperienza personale, di storia della cultura, di relazioni tra piani all’apparenza lontani ed eterogenei, colta con affettività coraggiosa, il vedere è in grado di sopportare senza riduzioni o infingimenti, tanto più complesso e pronto ad interagire altrimenti si dispone dinanzi agli occhi il reale.


Con i pannelli digitali e la loro installazione, un raddoppio in-Assenza, Paolo Ferrari traspone la fotografia e le sue radici filogenetico-culturali su assi in cui l’ottica perde il suo valore dirimente nella visione. L’occhio fotografico non trova appiglio nella figurazione, riferimenti prospettici; l’immagine è accolta e levata – quasi in senso hegeliano, tolta ,estratta dal piano della fotografia, della realtà catturata e replicata punto a punto in corrispondenza biunivoca e simmetrica, per mezzo di stratificazioni successive, ovvero trasformazioni tramite composizione e decomposizione, passaggi per cui essa si distacca dall’adeguazione di occhio e cosa. Le stratificazioni, attuate con ripetute fotocopie della fotografia d’origine, spesso velate con carta lucida millimetrata, con elaborazioni in acrilico e con l’inserimento di oggetti all’apparenza incongrui, disancorano la forma dalla sua tendenziale fissità, smuovono la materia concreta che ossessiona la mente nell’attuale fase evolutiva. La velatura dell’oggetto-cosa concreto lo rende meno evidente, ricco della mancanza non evidente; in tal modo l’oggetto, latente, può cominciare a rivelarsi, a specificarsi, svincolandosi dai vecchi legami, come a-cosa, uno stadio meno concreto dell’ente realtà; così l’intero sistema apprende, in un suo punto, a mutare stato. Le seguenti scansione digitale e stampa al plotter conferiscono all’immagine "un’altra lontananza" in cui l’Occidente non può più rifugiarsi. La fotografia, come un reperto fossile del vedere, lì viene inclusa e resa oltremodo significativa nel suo perdere centralità. Il suo morire come luogo privilegiato della visione, la sua fuoriuscita dall’universo che essa rappresenta, del resto spostato su un livello in differenza, produce frutti inattesi; perché l’occhio non si aspetta alcunché, accettando di non cogliere nulla e di nulla vedere, pur nella ricchezza dell’espressione (l’accostamento di colori assai vivi è dominato da una tecnica per niente ‘minimalista’). Attraverso tale riconosciuta e sorprendente cecità dell’antico organo di senso si perviene ad un vedere con la mente (a una teoria) non più platonico. La ‘cosa’, potendo essere e non essere senza scandalo, scompare, perde la necessità, presunta, della presenza.
Questa liberazione del campo visivo dalla ‘cosa’, in cui però la ‘cosa’ stessa viene inclusa, non può essere intesa nella sua piena portata se valutata in termini estetici assoluti. Paolo Ferrari opera una decostruzione della visione ordinaria che la dematerializza. Il suo è un atto scientifico ed artistico insieme, di un’arte che conduce all’esperienza di un diverso conoscere; un amor intellectualis che, contenendo l’eredità umana e culturale (niente di umano resta estraneo), sa scendere nell’effettualità, attiva un esperire affettivo e razionale in cui l’organo di senso non domina e ingombra più la percezione, perciò più libera e sottile. L’intellezione è depurata dell’eccesso di sensazione; come se il cervello potesse entrare in presa diretta nella realtà senza l’intervento di antiche (un tempo necessarie) e lente intermediazioni, legate ai bisogni sensoriali del regno animale. Arte è allora l’individuare uno stadio di realtà in cui, mutata nei suoi fondamenti, scompare la realtà qual è ora col suo sistema di valori, il cogliere un nuovo genere di tempo, di spazio, di sensibilità e di ragione.
Il plotter painting è un insieme complesso (sui margini del caos), "un foro di niente" attraverso il quale l’osservatore è spinto a passare per sperimentare uno sguardo ultrasensibile (i sensi non riescono ad unificare il dato percettivo in variazione continua) e ultraretinico (la fisiologia oculare non è in grado di connettere la visione all’elemento astratto affettivo). L’ingresso nella "forma di nulla" è appreso come sconfitta d’essere (e dell’Essere parmenideo); invero è un trapassare, un venire meno, e un trapassare "un buco vuoto"; è l’atto dell’astrazione, dell’assumere tale vuoto e sé in esso, del prendersi cura, dello svuotamento, del cessare, che svela l’altro. Le relazioni intrinseche all’insieme producono lo spazio vuoto idoneo ad un’altra attività cerebrale, dove nasce un nulla che è realtà appena spostata, ma già ricca di un silenzio sensibilissimo e chiarificatore, perché slegato dai rumori di fondo, dal continuo brusio, della mente.
Nell’astrazione è sottratto il tempo. L’osservatore entra in una temporalità subliminale: nel togliersi dell’immagine s’interrompe la subordinazione di questa al pensiero psicologico, occupato da tracce mnestiche proprie del tempo cronologico, il tempo della cosa, del nascere, del vivere e del morire, ovvero della superata specie umana vincolata alla catena dell’essere, alla freccia del divenire. Relativamente alla vita del singolo ed alla storia del mondo conosciute sinora, si origina un tempo a sviluppo non più unilineare, dominato dal prima e dal dopo, che si libera dell’evidenza cronologica (il ticchettio dell’orologio, il fugit tempus, vorace preparatore della nostra morte) e coglie la sua intemporalità: un tempo non tempo per Homo sapiens s., il cui modello temporale è tuttora il battito cardiaco. Come ogni particolare del plotter painting è sciolto dallo schema e dal contenuto dell’immagine d’origine, così ogni istante è un assoluto, sciolto dal legame con ciò che lo precede e da cui proviene.
Accoppiamento del reale quale appare all’occhio fotografico, il plotter painting di Paolo Ferrari si cura dello sguardo che quell’occhio getta alla ricerca dell’oggetto materia, di una realtà concreta ma non oggettiva per eccesso di cosa, è cura dello sguardo frammentato e frammentario di una specie logora e malandata, lo guida all’oscillazione di un vedere che, attivo sotto la soglia di percezione ordinaria, anticipa il formarsi coatto della cosa e la svuota.

  Un fatto per Aristotele: "più di tutte le altre [sensazioni] è amata quella che si esercita mediante gli occhi. Infatti noi preferiamo, per così dire, la vista a tutte le altre sensazioni, non solo quando miriamo ad uno scopo pratico, ma anche quando non intendiamo compiere alcuna azione. E il motivo sta nel fatto che questa sensazione, più di ogni altra, ci fa acquistare conoscenza e ci presenta con immediatezza una molteplicità di differenze." (Metafisica, I, 980 a).

All’altro capo della storia dell’Occidente, e in senso inverso rispetto all’ordine consequenziale sensazione-teoria, si è giunti a sostenere che qualsiasi argomentazione astratta può essere tradotta in forma visiva, che tutto il pensare ha natura fondamentalmente visiva (v. Rudolf Arnheim, Visual Thinking, 1969 [trad. it. Il pensiero visivo. La percezione visiva come attività conoscitiva, 1974]).

2Individuato da Parmenide nella via di ricerca "che ‘è’ e che non è possibile che non sia" (fr. 2).

3 "È stato" è il noema, il senso immanente alla sua esperienza, della fotografia (v. Roland Barthes, La chambre claire. Note sur la photographie, 1980, Seconda parte [trad. it. La camera chiara. Nota sulla fotografia, 1980]). Guardando una fotografia si include fatalmente nello sguardo il pensiero dell’istante in cui una cosa reale si è trovata immobile dinanzi all’occhio: qualcuno l’ha vista in carne ed ossa. L’essere scomparso tocca l’osservatore come i raggi differiti di una stella: la fotografia attesta che ciò che si vede è effettivamente stato, è un certificato di presenza, "ha qualcosa a che vedere con la risurrezione". Con l’avvento della fotografia, per la prima volta (e ciò "divide la storia del mondo") il passato è sicuro quanto il presente. D’altra parte il tempo è "ostruito" e la cosa "esorbitata", l’evidenza è "spinta" e la vista riempita "di forza"; si entra nella morte "piatta": volendo conservare la vita, l’immagine produce la morte.

4 Repubblica, X 595 a – 598 d.

5 Per una genealogia della fotografia dall’ "ideologia dell’istantanea", il cui primo esempio sarebbe rappresentato dal discobolo di Mirone e la cui prima teorizzazione sarebbe contenuta nel De Pictura (in cui nasce l’idea del quadro come finestra) di Leon Battista Alberti, v. Diego Mormorio, Un’altra lontananza. L’Occidente e il rifugio della fotografia, 1997, Prima parte.

La storia della pittura in Occidente, dal XV sec. in avanti, allorché col Rinascimento si riannodano le radici col mondo classico, è generata dalla visione dell’attimo fuggente e la genera, sia pure in forma idealizzata. Un passo decisivo verso la visione dell’istante, così connaturata all’immagine fotografica, tolto dall’Iperuranio e immerso nel fluire della vita che esso raccoglie, avviene secondo noi con Rembrandt (p. e., La ronda di notte, i ritratti): nell’istante v’è tutta la vita, ma come sottratta al peso della catena causa-effetto, alla costrizione teleologica, alla necessità del significato. (V. Georg Simmel, Rembrandt. Ein kunstphilosophischer Versuch, 1916 [trad. it. Rembrandt. Un saggio di filosofia dell’arte, 1991]).

6 Che la linea di sviluppo Idea-prospettiva-fotografia appartenga e sia peculiare al vedere dell’Occidente, risulta dal confronto, anche rapido, col mondo cinese, ove vige se mai l’’ideologia della posa’: nessuna fotografia è una vera istantanea, non interessa cogliere un soggetto in movimento, ciò che fa vera un’immagine è che fa bene vederla; fotografare è sempre un rituale, un mettersi in posa in cui a ciascuno è dato il suo giusto ruolo sociale, implica consenso e un ordine morale dello spazio; non si vuole che la fotografia significhi, ma che mostri ciò che è già stato descritto (v. Susan Sontag, On Photography, 1973 [trad. it. Sulla fotografia. Realtà e immagine nella nostra società, 1978], il cap. Il mondo dell’immagine, in particolare l’illuminante nota sui documenti fotografici prodotti dal "Movimento per emulare Lei Feng").

7 Per una disamina di fenomenologia della percezione sulla lezione di Husserl, v. Giovanni Piana, Elementi di una dottrina dell’esperienza. Saggio di filosofia fenomenologica, 1979. Il metodo fenomenologico caratterizza gli atti di esperienza attraverso l’esibizione di differenze di struttura. Rilevante ai fini della descrizione dell’occhio fotografico in azione e dei suoi limiti ci appare l’indagine sulla natura sintetico-processuale della percezione, in cui considerazioni temporali entrano in gioco. Nella percezione attuale, nello scatto, le scene trascorse e le scene anticipate sono percettivamente implicate in un presente ‘esteso’. "Ritenzione" e "protenzione" disegnano un "diagramma del tempo" e una configurazione di senso ignorata però dall’occhio che aziona l’otturatore (opportuna denominazione per il meccanismo che ‘chiude’ il tempo di posa e il presente esteso).

Lo psicologismo è stato assai efficace nell’occultare ciò che, nell’atto percettivo, non è riconducibile ad alcuno stato (o flusso) di coscienza, ad alcun inconscio. Occorrerà d’altro canto tenere presente quanto ha messo in luce, circa l’attività percettiva e i suoi meccanismi, la Gestaltpsychologie o psicologia della forma: la psiche non ama la complessità, la sua preferenza si dirige verso il semplice, lo stabile, l’equilibrato, il simmetrico, l’ordinato, tende invincibilmente all’unificazione, a riempire i vuoti.

8 Mormorio, op. cit., si collega a Erwin Panofsky, Die Perspektive als "symbolische Form",1927 [trad. it. La prospettiva come "forma simbolica", 1976].

9 Da un punto di vista ‘filogenetico’, la storia della prospettiva potrebbe essere pensata come un tentativo del cervello evoluto di utilizzare l’occhio, cui è connesso così strettamente, in modo adeguato alle nuove facoltà mentali. Del resto, sino a che punto è sostenibile la separazione strutturale e funzionale di occhio e cervello?

10 Pavel Florenskij, Obratnaja perspektiva, 1922 [trad. it. La prospettiva rovesciata, 1983], Analiz prostransvennosti v chudozestvennoizobrazitel’nych proizvedenijach, 1921-24 [trad. it. Lo spazio e il tempo nell’arte, 1995]. Individuando le origini della prospettiva nella scenografia teatrale della tarda antichità, ne mette in luce l’illusionismo, la pretesa di sfuggire a una realtà più complessa.

11 Iscritta sul volto del defunto era la formula della vita eterna: ‘Io sono Osiride’. "I metodi della pittura di icone originarono dalla necessità…per la pittura della mummia…di dare un rilievo luminoso e possente al volto, che con la sua potenza contrasti con la casualità di un’illuminazione mutevole e che perciò al di sopra del fondamento empirico, riveli visivamente qualcosa di metafisico" (Pavel Florenskij, Ikonostas, 1922 [trad. it. Le porte regali. Saggio sull’icona, 1977] in Mormorio, op. cit.).

12 Timeo, 37 d – 37 e. Mentre il Demiurgo costituisce l’ordine del cielo, "dell’eternità che permane nell’unità, fa un’immagine eterna che procede secondo il numero, che è appunto quella che noi abbiamo chiamato tempo."

14 Matteo, XIII, 16-17. Ancora: "Ora, o Signore, lascia che il tuo servo se ne vada in pace, secondo la tua parola. Perché i miei occhi hanno mirato il tuo Salvatore" (Luca, II, 29-30). Col secondo concilio di Nicea nel 787 (l’ultimo dei concili ecumenici riconosciuti tali da ambedue le chiese, orientale e occidentale), il cristianesimo, unica tra le religioni monoteiste, legittimando il culto delle immagini in forma di venerazione ‘relativa’, afferma il primato della vista sull’udito, dell’immagine sulla parola: se Dio si è incarnato nel Figlio, Dio ha voluto mostrarsi e farsi vedere; "il Verbo si è fatto carne e abitò fra noi" (Giovanni, I, 14). Islamismo ed ebraismo, religioni della parola, non accolgono l’Incarnazione, ovvero il mostrarsi di Dio in carne ed ossa (v. Umberto Galimberti, Chi dipinge il Salvatore, "la Repubblica", 22 aprile 2000).

15 L’asserzione che "la fotografia è, nella sua più intima essenza, il prodotto del laicismo, della desacralizzazione delle immagini e del sentimento che prevalentemente l’ha accompagnata, il godimento estetico" (Mormorio, op. cit.) va relativizzata: il rapporto ch’essa conserva con le radici del vedere e del pensare occidentali si mostra ben più radicale, si fonda su piani ancora estranei (come insegna Nietzsche sin da La nascita della tragedia) al concetto moderno di godimento estetico.

Nell’ebraismo è alla parola di Jahvé, alla voce del Dio vivente e misterioso che occorre prestare ascolto, rispondere: "Quando le tue parole mi vennero incontro, le divorai con avidità; il tuo dire fu la meraviglia e la gioia del mio cuore" (Geremia, XV, 16).

 

16 Da questo punto di vista la cinematografia si limita a mostrare una sequenza di immagini già definite in movimento, le dà per scontate o tende ad individuarle 17Un primo passo nella direzione della ‘differenza’ è rappresentato dalla serie di studi di nuvole realizzata tra il 1923 e 1931 da Alfred Stieglitz, intitolata Equivalents (Equivalenti). La fotografia riproduce il mondo per frammenti; la macchina stessa inquadra una porzione di un campo infinitamente più vasto eliminando il resto del mondo, presente implicitamente, espulso esplicitamente, modalità fondamentali della pratica fotografica quanto il mostrare esplicitamente (vien da chiedersi che cosa sia il rimandare all’assente: l’attività dell’occhio chiuso durante lo scatto?). Nelle sue fotografie di nuvole Stieglitz mette in luce non solo che il cielo è vasto e l’immagine limitata, ma che il cielo è per essenza non composto. La composizione delle fotografie non è fortuita; esse postulano l’assenza di fondamento della composizione, giungono come un insieme impossibile da analizzare. Stieglitz crea un’impressione di disorientamento fino alla vertigine, immagini della realtà priva di alto e basso, dell’elemento primordiale del rapporto con essa, cioè del senso dell’orientamento con la terra, del riferimento all’orizzonte: private del suolo le fotografie perdono il loro fondamento, i solchi verticali delle nuvole "evocano in noi, parodiandola, l’idea della cosa assente". Il mondo è mostrato in via esclusiva per mezzo di un’immagine radicalmente separata dai punti di ancoraggio noti, "un’immagine che ha come soggetto il fatto di levare l’ancora." Non avendo più orientamento ‘naturale’ – le nuvole stesse sono trasmutate in segni non naturali – in rapporto con gli assi del mondo reale, la fotografia "non è più ciò che abbiamo sempre creduto che fosse", ovvero il prolungamento dell’esperienza della presenza materiale al mondo, è "una trasformazione assoluta della realtà" (v. Rosalind Krauss, Le Photographique, 1990 [trad. it. Teoria e storia della fotografia, 1996]).

18 Con l’assunzione della posizione eretta i nostri remoti progenitori accettarono uno stato di equilibrio assai precario: "La camminata umana è quell’attività distintiva nel corso della quale il corpo, passo dopo passo, vacilla sull’orlo della catastrofe". Constando di una fase di surplace cui segue una fase di oscillazione, il "bipedismo umano appare potenzialmente catastrofico" (J.R. Napier in Phillip V. Tobias, Man: the Tottering Biped, 1982 [trad. it. Il bipede barcollante. Corpo, cervello, evoluzione umana, 1992], che studia postura e locomozione nell’uomo e nei primati superiori attuali comparandole con la documentazione fossile).

19I termini medesimi della vita sessuale mutarono radicalmente: con l’andatura eretta si rendono visibili i genitali fino allora nascosti, gli eccitamenti visivi acquistano preponderanza e, contrariamente agli intermittenti stimoli olfattivi, svalutati, mantengono un effetto permanente; ciò determina una diversa e continuativa relazione tra i sessi, esemplificata dalla fondazione della famiglia (v. Sigmund Freud, Das Unbehagen in der Kultur, 1929, 4 [trad. it. Il disagio della civiltà, 1971]).

20 L’espressione hegeliana ricorda che il travaglio del negativo è essenziale al manifestarsi, al comparire stesso del fenomeno: occorre guardare in faccia il negativo e soggiornare presso di esso, perché lo sguardo converta in altro il dato percettivo smuovendolo dalla sua fissità, perché questo accetti, per così dire, tale metànoia.

21 Per la formulazione del Principio d’Inclusione, nuova forma di principio di realtà, v. Paolo Ferrari, Lettera-saggio sull’Assenza, la realtà e la nuova scienza, 1993 e III Saggio sull’Assenza: un approccio non noto alla differenza dal ciclo di vita e di morte consueto, 1994, ora in Paolo Ferrari, Le lezioni dell’Assenza. Le vie (assenti) del nuovo pensare, 1994.

22 Si rimanda a I Raddoppi in-Assenza di Paolo Ferrari. Installazione-Raddoppio (dematerializzante) in-Assenza. Valenza 1998-2003, 1998, in particolare all’Introduzione di Luciano Caprile.

23 Questa adeguazione è, nella forma del vedere, l’espressione del realismo (adaequatio rei et intellectus) come corrispondenza tra la realtà e la sua immagine concettuale. Il realismo necessita dell’immagine, astratta sì ma riconducibile sempre alla cosa, su cui si fonda. Solo in tale stretto accordo è concepita la verità.

24 La tecnologia digitale, binaria, lavora per differenza, sviluppa autonomamente l’allontanamento dal mondo dell’analogia, da sempre eredità animale di Homo sapiens. s., disegna un luogo in cui la materia tace.

25 Il richiamo al libro di Mormorio, cit., segnala una radicale differenza. In Ferrari la lontananza è l’Altro che non è alcun rifugio o utopia, ma una condizione diversa da quanto si è visto finora, una realtà di pochissimo spostata più in là.

26 La cura del vedere può ben definirsi un aspetto della cura della Specie; per quest’ultima, intesa come risposta ad uno stato di anomalia, di sofferenza e malattia originatosi dalle caratteristiche della specie umana nella sua interezza (perciò come "terapia di specie" quale "distacco di specie"), v. Paolo Ferrari, II Lettera-saggio sull’Assenza: il distacco (l’oggetto astratto), la mente e la cura, 1993, ora in Le lezioni dell’Assenza, op. cit..

 

19 luglio 2000