Luciano Caprile

INTRODUZIONE AI RADDOPPI IN-ASSENZA DI PAOLO FERRARI
(VALENZA 1998-2003)

Dall'avvento di "dada" in avanti il gesto e il comportamento hanno trovato nell'arte un terreno fertile di libertà.
Duchamp ha affermato il supremo valore dell'intenzione dell'artista; l"action painting" ha legato il risultato alle manifestazioni dell'inconscio (da qui la vena surrealista) e alla guida magistrale di un percorso vigilato: è il caso del "dripping", delle colature pollockianamente calpestate e condite di provocazione. La nascita di "CoBrA" nel 1948 ha recuperato climi ancestrali e ha mutato gli incubi surrealisti in rabbia espressionista, in urlo munchiano rivitalizzato dagli orrori di una guerra appena conclusa e pronta a riproporne la barbarie.
E' giunto quindi l"Informale" a convogliare nel segno controllato, o acceso da un'estrema varietà di movimento, le pulsioni di un'arte che ha travalicato l'icona in attesa di una nuova epifania. Verso la metà degli anni Sessanta si è verificato un ulteriore sussulto di pittura bruta provocata da un preciso evento contingente: alcuni artisti berlinesi emotivamente condizionati dal "muro" hanno rievocato la rabbia e la disperazione dei Dix e dei Beckmann coniugandola a quella più recente di Jorn e di Appel. Ne è sortito un rinnovato flusso di disagio esistenziale che pittoricamente ha contaminato prima l'Europa (la "Transavanguardia" italiana è da ritenersi una esigenza o una risposta parallela) e poi gli Stati Uniti.
Queste riflessioni sono a mio avviso necessarie per accostarsi al lavoro di Paolo Ferrari, per poter dirimere l'apparenza dalla sostanza delle sue opere, per poter indagare il gesto che le ha originate. La sua è una pittura complessa al di là del fatto che ci si trovi di fronte a dei "plotter" o a delle composizioni da cui emerge il peso della materia. Con lui di solito ci si imbatte in un racconto principale (magari perché è il più immediato da cogliere o quello che sigilla cromaticamente la superficie) e in una serie di sottoracconti da proiettare percettivamente in profondità, in una successione di piani a perdere.
In altre circostanze la base dell'opera, sostenuta da una fotografia in bianco e nero, viene sottoposta alla "cancellazione" o, forse più correttamente, allo straniamento ottenuto dal successivo impulso colorico che ne modifica il ruolo.
Se indaghiamo le composizioni installate alla San Marco Laterizi (e che costituiscono uno spaccato fedele della creatività di Ferrari), possiamo suddividerle in gruppi identificabili per tematiche o per soluzioni formali. Un numero consistente di lavori è caratterizzato da un "volto" che talore cresce in termini pittoricamente perentori dalle ripetute sovrapposizioni guidate dall'urgenza dichiarativa. Il presente (gli occhi soprattutto che si stagliano dall'intreccio magmatico) si muove verso l'osservatore e produce uno iato non colmabile verso il fondo che si perderebbe nell'indistinto, in un'area di soffusa liquidità, se non comparisse il tramite di una carta millimetrata a confermare un desiderio di topografia, di misura, di riferimento, di controllo del passato. Il pensiero travalica quindi lo sguardo per ricadere nello spazio lasciato libero dal comportamento dell'artista.
Queste tonalità accese e contrastanti, tese a convogliare intenzioni ed emozioni forti, ricordano le già menzionate esperienze "CoBrA" (là gli esiti erano maggiormente materici e violenti, qui si gode di un maggior respiro spaziale) e "neo-espressioniste" (ci riferiamo soprattutto al Baselitz delle teste capovolte). Tali considerazioni valgono soprattutto per "Testa in-assenza XII-XXI secolo" e per "Attenzione alla schiena!". In quest'ultimo caso compaiono anche corpi che si sfrangiano sui ritmi cadenzati del giallo e dell'ocra. Una riflessione a parte merita "Testa-per-gioco", prodiga di sottoracconti nell'ambito dell'ovale del viso, adibito a contenitore di materia che diviene baratro, metamorfosi accelerata di un divenire che si fa pensiero, disagio nell'atto dell'indagine proprio come succede per il nucleo autoptico, tipico degli "otages" di Fautrier: il pensiero si fa carne e viceversa nella terribilità di una qualche esistenza ("La materia di Fautrier è sensibile, come la carne di cui è fatto il nostro corpo, alle ansie e alle decisioni della vita morale"1
).
Un altro capitolo riguarda le "finestre" che, in certe occasioni, si aprono sulla parete grigia dello sfondo: sono riquadri di colore come per "Muro astratto con piccioni", oppure si stagliano (con un accenno di viso) contro l'uniformità colorata di un particolare della fabbrica ("Testa astratta in-argilla"), o, ancora, fanno risaltare frammenti di calligrafia, col tramite della carta millimetrata, contro il racconto di riferimento. Dal punto di vista concettuale ci rimandano ai "televisori" e ai "paesaggi" di Schifano, alle sue interpretazioni critiche dell'attualità da vagliare per fotogrammi. Da queste prove scaturiscono inoltre l'interesse e l'intuizione "dada" per il collage, per il reperto casuale che diventa intenzione, per l'uso della fotografia tale "da coordinarsi e da comporsi in una intenzione d'analisi dell'universo reale veramente organica".2

Un terzo gruppo di opere ritaglia per sé un ruolo di interpretazione (di negazione o di sottolineatura) della fabbrica intesa come spazio/tempo per un subracconto o per un racconto più vero dell'immagine. Il gesto di Ferrari appare libero da ogni condizionamento compositivo: sceglie percorsi cadenzati e ritmici cercando effetti di sottolineatura ("Volo d'ombra in-assenza") oppure mira circolarmente e decisamente al cuore del problema in un "Sole doppio: come punto di fine" che sceglie la fuga/trappola concentrica dello sguardo.
Con "In-assenza: dematerializzazione" è la colatura del rosso a bloccare il margine notturno, a tentare il territorio della purezza estrema di un Klein. Qui ci si incammina lungo una gestualità creativa che si articola per escavazioni improvvise (i neri di "Astrazione in fabbrica") e per liberazioni immediate, per merito dei rosa e dei blu, a suscitare un respiro aereo, un movimento ascensionale oltre le sbarre: da Schumacher ("La materia cromatica diventa la costante preservante dell'immagine"3
) a Novelli, al Vedova degli anni Cinquanta, si dipartono punti d'incontro materico e formale con Paolo Ferrari perché, al di là di quegli intendimenti scientifico/filosofici che guidano la sua mano, egli compone opere pittoriche che occupano e promuovono spazi in divenire, come se il quadro dovesse perpetuarsi fuori di sé per staccarsi da un passato o da una piattaforma che ribadisce l'incombenza del fare. Egli è un artista ben radicato nel nostro tempo perché, in questo divenire, in questa continua pulsione, si rispecchia tutta l'urgenza del presente nel manifestarsi anche per scostamenti dal vero, anche per letture complementari o contrapposte. In tal modo convivono in lui lo straniamento "dada" di Duchamp, la vitale e sofferta palpitazione di Fautrier, l'ordine assoluto di Klein, ovvero le aspirazioni e le verità contraddittorie dei nostri giorni.

Conversazione con Paolo Ferrari